Una diversa gestione del patrimonio artistico

Il testo che proponiamo è stato pubblicato l’1 maggio 2014 su ‘Cartalibera’ che lo ha ripreso da ‘Società Libera on line’ – MdPR

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Nella leggenda epica della rivoluzione francese non c’è quasi nulla di vero.

Quei sovrani assoluti che sarebbero stati Luigi XIV, Luigi XV e Luigi XVI non sono mai esistiti, la censura sui libri proibiti come ‘Les Mèmoires’ di Madame du Barry – e, curiosamente, come ‘L’an 2440’ di Mercier – erano aggirate da edizioni clandestine stampate ad Anversa o a Neuchatel e disponibili nei retri di tutti i librai.

Tutte le mattine circolavano nei caffè e nei bistrot nuovi epigrammi sulla vita segreta di Versailles, epigrammi che la polizia raccoglieva nei suoi rapporti quotidiani senza arrestare nessuno, e alla fin dei conti il 14 luglio la Bastiglia era praticamente vuota, forse sette detenuti di rango.

Soprattutto i decreti reali, per essere applicati, dovevano venire registrati dai parlamenti regionali, che per due volte potevano rifiutarli, e se la cancelleria del sovrano a quello di Parigi riusciva qualche volta a ripresentarli tre volte – ma l’opposizione del parlamento non era da prendersi alla leggera – i parlamenti regionali semplicemente e senza conseguenze li ignoravano: le città avevano conquistato i loro privilegi e le loro libertà nel corso dei secoli – diversi in ogni città – e nessun sovrano avrebbe osato intaccarle, sicché una politica centrale era impossibile e per questo, alla disperata, Luigi XVI tenterà di abolirli rimettendoci la testa.

Sarà la grande intuizione di Sieyés, che l’assemblea nazionale rappresentasse la volontà della Nazione, ad autorizzare la decadenza di tutti i privilegi delle città e ad aprire la strada a un’amministrazione centralizzata e a un governo locale sorvegliati dagli organismi decentrati dei ministeri.

Ma chi era la Nazione?

Meno della metà dei francesi parlava il francese, e l’italiano era parlato dal due per cento da quelli che saranno gli italiani, e a questo alludeva d’Azeglio quando sosteneva che fatta l’Italia occorresse fare gli italiani.

E poi ogni città aveva una sua riconoscibilità tra tutte le città europee affidata ai suoi temi collettivi, alle grandi cattedrali e alle opere d’arte diffuse dovunque nelle chiese e nelle collezioni dei principi, ma la Nazione appena inventata non aveva alcuna tradizione, in Italia solo la ricorrente affermazione letteraria della sua esistenza, forse solo geografica come asseriva Metternich.

Così la nuova Nazione sosterrà che tutte le opere d’arte prodotte nei secoli dalle città non saranno più l’espressione della loro libera intenzione estetica ma saranno la manifestazione di una cultura nazionale che lo Stato tutela: è il più vasto esproprio degli esiti della libertà comunale mai stato immaginato.

Quando verrà dibattuto nella Costituente il testo dell’art. 9, Concetto Marchesi, uno studioso illustre ma comunista, propose la dizione “Lo Stato protegge…” gli fu opposto, soprattutto da Emilio Lussu, un azionista sardo, il testo attuale, “La Repubblica tutela…”, intendendosi con Repubblica lo Stato, le Regioni, i Comuni, ma anche tutti i cittadini e le loro associazioni.

Il più costante terreno di lotta per la libertà è il conflitto tra le città e lo Stato – dai tempi di Legnano e di Courtray – e in concreto dobbiamo chiedere di abolire le Soprintendenze e restituire la competenza sul “che fare” dei propri monumenti a chi li aveva voluti nei secoli e che, incorporando la loro volontà e le loro risorse, ne sono i legittimi proprietari, annullando l’esproprio del secolo scorso.

La discussione se si debba o no costruire un campanile di ascensori di fianco al duomo di Milano è una competenza dei milanesi, non del ministro Franceschini, e che ci sia un comitato di saggi nazionali, autonominatisi tali come Salvatore Settis, che la sa più lunga su tutto quanto possiamo o non possiamo fare, ricorda soprattutto Goebbels, con rispetto parlando, e difatti nella costituzione tedesca la tutela verrà delegata ai lander.

Le chiese, le abbazie, gli ospedali, tutto quanto è stato costruito dalle città deve tornare ad essere il loro patrimonio, che gestiranno con la più ampia partecipazione popolare o anche con i loro motu proprio.

Il magazzino degli Uffizi

A Milano il sindaco Pisapia sta devastando la città e per renderla adatta all’Expo la tratta con il medesimo gusto di una festa parrocchiale di provincia: ma questa è la democrazia, con la sue sanzioni.

Nella frenesia di costituire questo patrimonio nazionale le opere d’arte sono state concentrate nei musei, destinate ad educare il popolo, e in questo caso il problema è di consentire ai musei che fanno capo allo Stato la massima autonomia gestionale e consigli di amministrazione rappresentativi della città e dei suoi cittadini, consigli aperti a discutere ogni decisione.

Ma quello che conserviamo nei sonnolenti scantinati dei musei maggiori dovrà venire riportato alla luce per diffondere la conoscenza della nostra tradizione artistica, assegnarlo magari a musei minori, qualche volta riportandolo nelle sedi originali, qualche volta assegnando un quadro a una scuola che ne faccia il simbolo della propria appartenenza alla tradizione estetica della propria città, sicché poi il museo non è altro della propria scuola.

E poi anche a semplici cittadini, con le tutele del caso e con qualche canone, così che un giovane cresca con il principio che la sua famiglia spenda qualche euro al mese per avere in casa un quadro pregiato, simbolo anche questo dell’appartenenza della famiglia alla città.

Società Libera ha posto sul tappeto quest’ultimo obiettivo, lo raccolgo ampliandone il quadro, suggerendo agli amici della libertà il mio libro ‘Liberi di costruire’ di Bollati Boringhieri.

Marco Romano