Un quadrato e dodici corde

31 maggio 2014, ore undici del mattino, nel salone superiore del Caffè Zamberletti – quello nel quale Piero Chiara giocava a scopa d’assi col Rosmino, quello nel quale appunto Rosmino, sconfitto e all’atto di pagare disse al luinese “Vorrei avere la tubercolosi per poterti sputare in bocca!” – incontro in pubblico un vero vulcano di idee, aneddoti e intelligenza: Alberto Sironi regista, fra l’altro, di tutti i film televisivi dedicati al commissario Montalbano. Si parla di questo, si tratta di quello, si arriva allo sport e a come rende sullo schermo. “Meglio di tutti, la boxe”, dice Sironi e, tra mille altri ‘momenti’, subito mi sovviene il Rocky Graziano di Paul Newman, “Il perchè è presto detto: c’è un luogo ben preciso, il ring, il quadrato. C’è il ko e non si può chiedere di più  cinematograficamente parlando”. E mi viene allora in mente che sul pugilato, sulla ‘nobile arte’ ho scritto eccome. E mi viene voglia di metterle insieme tutte le righe che ho dedicato a questo, anche dal punto di vista letterario, magnifico tema. Eccole, dodici storie:  noble art  di Marciano, Garbelli, Bernasconi, Jacovacci, Schaaf, Klitscko, Clay, Bethea… con un’intervista a Sandro Mazzinghi – MdPR

* * * * *

Tre, venti, cento round tra le dodici corde?

L’unica cosa fortemente desiderata

che non sono riuscito a fare in vita mia

Una faccia piena di pugni

Varese, Anni Cinquanta.

Un pomeriggio d’estate al cinema.

All’Impero, precisamente.

Nel buio della sala, quasi vuota, mi accorgo che qualche fila davanti a me siedono due uomini in tuta da ginnastica con la scritta ‘Ignis’ sulle spalle.

Mi sforzo di riconoscerli e attendo con impazienza l’intervallo per poterli identificare con certezza.

Irrequieto, cerco di coglierne il profilo.

Non seguo più il film.

Mi sembrano pugili e il più piccolo deve essere proprio lui, Mario D’Agata, il campione del mondo dei pesi gallo.

Li indico a mio fratello che, seduto accanto a me, non riesce a comprendere la mia agitazione.

Se Dio vuole, ha termine il primo tempo e la sala si illumina.

Si, è proprio D’Agata e l’altro non può che essere Mazzinghi.

Nella semi oscurità, prima, ho preparato un foglio di carta e la penna che, per caso e per fortuna, avevo in tasca e, timidamente, avanzo nel corridoio centrale verso di loro.

Mazzinghi se ne accorge e si volta.

Naturalmente, D’Agata non può sentirmi, è sordomuto, ma segue d’istinto la mossa del compagno.

Mi sorridono subito e firmano il foglietto con una dedica.

“Mi chiamo Mauro”, gli dico.

D’Agata coglie il movimento delle mie labbra e verga: “A Mauro con simpatia”.

Sotto, più a destra, la scritta più grande e precisa di Mazzinghi, campione italiano dei pesi medi (naturalmente, si tratta di Guido, fratello maggiore di quel Sandro che, entrato a sua volta a far parte della ‘Scuderia Ignis’, sarà poi capace di conquistare la cintura mondiale e del quale, allora, non si sapeva ancora nulla).

Sono innamorato della boxe, della ‘nobile arte’, che in quegli anni Cinquanta stava cominciando a dare soddisfazioni ai tifosi e al Paese intero.

Proprio D’Agata, primo italiano dopo il mitico Carnera, si era impadronito del titolo assoluto e avevo potuto vedere il suo match in televisione: una grande prova.

Non è raro incontrare i migliori boxeur in attività in giro per Varese perché il commendator Borghi, patron della Ignis, ha deciso di creare una propria colonia pugilistica e, come farà poi per tutti gli altri sport ai quali si interesserà a cominciare dal basket, non si è lasciato sfuggire nessuno dei migliori.

E’ un buon momento per il pugilato italiano e ancora di più a livello mondiale.

Imperversa fra i pesi massimi l’imbattibile Rocky Marciano, un italo-americano di ferro, e, nei welters prima e tra i medi poi, emerge definitivamente il formidabile talento di Ray Sugar Robinson.

Nella libreria delle sorelle Franchi trovo anche una ‘Storia del pugilato’ di un certo Salvatore Salsedo e, praticamente, la imparo a memoria.

Mi tengo al corrente dei risultati di tutti gli incontri più importanti e, verso sera, corro all’edicola per comprare La Notte e Il Corriere Lombardo che riportano, in prima pagina, nell’ultima edizione, notizie e fotografie degli incontri combattuti il giorno prima negli Stati Uniti.

Anche a Varese abbiamo il nostro campione: è il medio-massimo Artemio Calzavara, di Cavaria se ricordo bene, che proprio in quegli anni diventa campione europeo della sua categoria di peso dopo un memorabile match, svoltosi alla palestra di via XXV Aprile, affollata all’inverosimile, battendo ai punti un tedesco dal nome impronunciabile, anche lui, però, decisamente duro e forte.

E’ un trionfo! La città intera partecipa e si commuove.

La boxe, inoltre, è anche un mito letterario e cinematografico.

Il grande Hemingway, il più seguito scrittore americano vivente e il più imitato, per quel che è possibile, in quanto a stile di vita, la pratica normalmente e la esalta in alcuni tra i suoi più appassionanti racconti e Paul Newman impersona magistralmente l’ex campione mondiale dei medi Rocky Graziano nel film ‘Lassù qualcuno mi ama’.

Bisogna fare qualcosa di più!

Di nascosto, senza dirlo a nessuno, mi presento alla palestra della Ignis perché ‘devo’ fare il pugile.

Non so come, all’ingresso mi prendono sul serio.

Riesco a entrare e mi trovo di fronte un anziano signore in tuta che mi sta a sentire con evidente bonomia.

Benché decisissimo, sono emozionato, farfuglio, ma, naturalmente, mi capisce.

Non c’è niente da fare.

Mi indica col dito gli occhiali e dice: “Miope, vero?” e, poi, al mio cenno di assenso: “Per boxare non devi avere difetti di vista. Nessuna commissione pugilistica ti farebbe combattere.

Mi dispiace” e non sa quanto dispiace a me.

 

 

Boxe al tappeto

“Di tutti gli sport, l’unico che ami veramente è la boxe. Certo, è uno sport che a poco a poco va scomparendo.

Ma mi auguro che, nei giorni che mi restano da vivere, ci sia sempre, da qualche parte, un’arena in cui potere andare…”.

Così, già nel 1911, Jack London, pessimisticamente, guardava al futuro del pugilato dopo averne descritto battaglie e protagonisti in splendidi articoli per le pagine sportive delle gazzette ed avendone saputo trarre spunto per bellissimi racconti, forse superati soltanto dall’Ernest Hemingway di ‘Cinquanta bigliettoni’.

Ora – a così grande distanza di tempo – possiamo ben dire che la fosca previsione di London, almeno in Italia, si è talmente avverata che dell’effettivo tramonto della boxe si possono rendere conto solo gli appartenenti alla mia generazione perché i giovani del pugilato altro non vivono che gli stanchi e lontanissimi echi che arrivano dagli Stati Uniti.

Qualcuno, rispolverando antiche teorie, sostiene che il pugilato “fiorisce laddove c’è fame” e che quando questa è passata e si può più facilmente raggiungere l’agiatezza economica per altre vie assai meno dure, la boxe è destinata a scomparire.

Sarà pur vero, ma allora – follemente – mi trovo a rimpiangere le molte sofferenze che avevano portato Sandro Mazzinghi ad essere il terribile ‘guerriero’ che era, Nino Benvenuti ad affinare all’estremo la sua ‘intelligenza’ pugilistica e tutti noi a sognare e a gioire con loro.

 

 

Il cameriere campione del mondo

Gli ex pugili, anche quelli non sfigurati in viso dai colpi ricevuti, si distinguono per la particolare postura delle spalle.

Abituati a combattere inclinati in avanti e come racchiusi con le braccia a difesa del volto e del tronco, mantengono nel tempo l’atteggiamento di chi possa da un momento all’altro uscire in jab, se va bene, o, se vicino, mollarti un uppercut.

Ecco, Domenico Bernasconi, per tutti ‘Pasqualino’, anziano, serviva a tavola al ‘Passatore’, giù al lago, riuscendo a comunicare che, anche se chino in avanti per trasferire la carne o il pesce dal piatto di portata a quello del cliente, lui era pronto.

Correva la primavera del 1973 e giusto quarant’anni prima per un buon quarto d’ora era stato il primo boxeur italiano a conquistare un titolo mondiale.

19 marzo 1933, san Giuseppe.

A Milano affrontava, cintura in palio, per la terza volta, il panamense Al Brown, mitico campione dei gallo.

Questi sapeva che il problema con Pasqualino consisteva nel superare i primi round e che dopo il Nostro si sarebbe ammorbidito.

Per tenerlo a bada, mise in scena un buon numero di scorrettezze accumulando richiami ufficiali a man bassa, fin quando l’arbitro, stufo, non lo squalificò.

La situazione non fu ben compresa né dai secondi di Pasqualino né dagli spettatori.

Pare che un gerarca fascista presente sia poi intervenuto sostenendo che un italiano non poteva vincere così.

Fatto è che un quarto d’ora dopo, il match riprese e che ‘Panama’ Brown prevalse nettamente ai punti.

Era, come detto, il 19 marzo 1933 e Primo Carnera avrebbe sconfitto Jack Sharkey per la corona dei massimi solo il successivo 29 giugno.

Cercai di parlare di quei lontani accadimenti col cameriere del ‘Passatore’ ma non se ne diede per inteso.

Chissà se e quanto ancora quella storia gli bruciava dentro?

 

 

Portiere di notte

“Non starò di certo qui a raccontarvela di bel nuovo se non per una particolare storia.

Lo sapete: all’incirca alla fine degli anni Settanta, in gravi difficoltà economiche e familiari, ne ho provate di cotte e di crude e, fra l’altro, nel continuo, rutilante susseguirsi di mestieri che duravano l’espace d’un matin, per qualche mese tra la primavera e l’estate del…, grazie ad un caritatevole amico, mi è capitato perfino di assumere una consulenza commerciale presso una ditta milanese di elettrodomestici che, probabilmente anche in ragione del mio intervento, di lì a poco avrebbe chiuso i battenti in via definitiva.

Con una vecchia Alfasud – in qualche modo rimediata – mi partivo, così, molto presto al mattino ad evitare code e conseguenti perdite di tempo, da Varese, piegavo verso l’uscita autostradale di Cormano e, percorsi un numero infinito di rettilinei e svolte, quasi magicamente, mi ritrovavo in una larga piazza della Milano periferica, ancora, data l’ora, deserta o quasi.

Corriere della Sera alla mano, immancabilmente alle sette, posteggiata agevolmente l’auto, avendo quasi due ore da far trascorrere, eccomi quindi per cinque giorni la settimana, infilare l’ingresso di una linda latteria che, stendendosi per lungo verso l’interno del palazzo nel quale apriva i battenti, bancone a sinistra, collocava un unico tavolinetto con due sedie sul fondo, proprio davanti l’ingresso della toilette.

Era la cadrega che guardava all’esterno invariabilmente occupata (e pareva fosse stato lì tutta la notte) da un anziano signore, di colorito scuro tanto che da subito avevo pensato potesse essere un mezzosangue.

Sedeva, il desso, Gazzetta dello Sport e un bicchiere di latte via, via meno caldo davanti, quasi sempre con lo sguardo perso nel vuoto.

Evitando per quanto possibile di interpormi tra i suoi occhi marroni e la luce che entrava dalla porta d’accesso, spostata leggermente l’altra sedia, borbottato un “Buongiorno” al quale non veniva data risposta, a mia volta, mi accomodavo.

Subito o pressappoco, mi accorsi che la sua ‘rosea’ era tutte le mattine aperta alla pagina che si occupava di pugilato, quasi che l’unico sport che davvero interessasse quel tale fosse la nobile arte.

Forte al riguardo delle mie conoscenze, feci presto a convincermi di avere incontrato nientemeno che Leone Jacovacci, il mulatto adottato negli anni Venti dai romani capace di conquistare il titolo italiano dei medi battendo in un memorabile incontro il milanese Mario Bosisio.

Mio padre, seduto in prima fila nell’occasione, mi aveva più volte narrato del match e di come, forzando la rima, da allora e per anni, a Roma fosse nell’ambiente di bordo ring in voga la poesiola “Attento, attento caro Bosisio che Jacovacci ti rompe il viso”.

Un paio o tre settimane, ed ecco che l’amico sparisce.

Aspetto due giorni prima di chiedere informazioni.

“Ah, lei parla del portiere di notte dell’87?”, risponde il lattaio.

“Ogni tanto si assenta: pare abbia qualche parente nei dintorni…”

Jacovacci – del tutto ignoto in quanto ex pugile e campione – portiere di notte a Milano?

Mi intriga e, trascorsa una settimana, mi fermo questa volta di sera in zona.

L’87 è un bel palazzetto, di quelli che vengono definiti ‘signorili’.

Suono a ‘Portineria’.

Entro e me lo trovo davanti.

Non è stato facile cavargli fuori qualcosa.

Non gli andava né di parlare dei bei tempi andati né del suo oggi.

Non gli dispiaceva l’avessi individuato, ma neppure gli faceva bene.

Alla fine, poche parole e, da me forzata, una stretta di mano della quale riferire a mio padre.

E’ da allora che penso che la gloria e la fama vanno raggiunte in tarda età o per lo meno quando si è abbastanza in là con gli anni, perché il trascorrere inesorabile del tempo non ne cancelli memoria, perché non si possa, non si debba soffrire, come capita in particolare ai campioni dello sport ma non solo, della dimenticanza, dell’abbandono delle un tempo plaudenti folle”.

 

 

Quelli che li colpisci e ti ridono in faccia

Sai che vuol dire prendere un cazzotto?

Uno di quelli bene assestati, portato da un professionista per metterti giù?

Fa male e ancora di più: ti spezza.

Resti a galla per una questione morale, direi.

Andresti a terra, ma il cuore ti dice di no.

E’ un incassatore, ecco come definiscono quello che ‘tiene’.

Ma non è il fisico, la mascella di ferro, lo stomaco duro e teso come un tamburo che gli permettono di resistere.

E ci sono quelli che prendono il colpo e si scoprono, invitano l’avversario a dargliene altri.

“Credi di farmi male con quei piumini da cipria che hai al posto dei pugni?”, dicono con i gesti sporgendo e porgendo il viso ghignante.

E, mentre ridono, soffrono.

Garbelli?

Giancarlo Garbelli.

Mai andato ko.

Che dico? mai finito al tappeto.

Un guerriero se mai ve ne fu uno.

Ai tempi di Ray Sugar Robinson, di Carmen Basilio, di Lazlo Papp, ai tempi belli, numero tre delle classifiche mondiali.

Un vero ‘re senza corona’ visto che a parte quella italiana dei welter non gli riuscì mai di cacciarsene una in testa.

Ecco, lui era così.

Quando gli andava male apriva la guardia.

E rideva.

E derideva.

E soffriva.

E se n’è andato il 16 marzo scorso.

E lo scopro per caso oggi, sette mesi e passa dopo.

E se ne andato in silenzio, nessuno che l’abbia ricordato come meritava.

La terra ti sia lieve, amico mio

 

 

La tigre del mare

Frederick Ernest Schaaf, chi era costui?

A dimostrazione del fatto, incontrovertibile, che è assolutamente necessario ricordare tutto, ecco, a distanza di oltre settantadue anni dalla tragica morte, tornare alla ribalta il povero ‘Ernie’ Schaaf.

Fatto è che quel benedett’uomo di Ron Howard, sempre alla ricerca di storie da trasportare sul grande schermo, ha pensato bene di occuparsi di Jimmy Braddock (la pellicola si intitola ‘Cinderella man’ dal significativo soprannome affibbiato a Jimmy da Damon Runyon, cronista sportivo di vaglia e autore del magnifico ‘Bulli e pupe’, che, del resto, aveva poeticamente battezzato lo stesso Schaaf, dai quindici ai diciannove anni in marina, ‘la tigre del mare’), un mediocre peso massimo americano degli anni Trenta protagonista di uno dei più sorprendenti exploit dell’intera storia della boxe: dato dieci a uno dai bookmakers, conquistò il titolo di tutte le categorie battendo ai punti il temibilissimo detentore Max Baer che a propria volta aveva detronizzato il nostro Primo Carnera.

Braddock viene rappresentato per quello che era (con tutte le vicissitudini e le infinite difficoltà che lo hanno accompagnato dentro e fuori del ring) e così pure Baer il cui figlio si è però lamentato perché nel film il genitore viene dipinto come un essere spietato e cinico cosa che a suo parere non corrisponderebbe al vero.

Ora, se in tutta la lunga vicenda del pugilato c’è  stato un boxeur ‘cattivo’ questi è indubbiamente il citato Max Baer che arrivò a vantarsi di essere lui il vero killer di Ernie Schaaf.

Fatto è che due giorni dopo avere incrociato i guantoni con Primo Carnera ed essere stato messo ko al tredicesimo round, Schaaf era morto in ospedale senza riprendere conoscenza.

Tutti (a cominciare dallo stesso gigante italiano che grandemente si disperò per l’accaduto) pensarono che Ernie non avesse sopportato i pesanti colpi subiti in quella circostanza.

Non così, come detto, Baer che, ricordando come sei mesi prima avesse ferocemente punito tra le dodici corde Schaaf, disse: “Non sono stati certamente i colpi di piumino di Carnera ad ucciderlo ma i pugni che gli ho dato io!”

Sia come sia, la ‘tigre del mare’ (e non si trattava di uno dei tanti sbandati che vengono spediti sul quadrato solo per arricchire il record dell’avversario di turno come dimostra il fatto che vantasse un gran numero di vittorie – tra cui proprio una sullo stesso Baer – e pochissime battute d’arresto) se ne era andata a soli ventiquattro anni e mezzo.

Pochi altri sport sanno essere altrettanto spietati!

 

 

‘Becco a gas’

22 marzo 1963, a Roma, Franco De Piccoli, già medaglia d’oro tra i pesi massimi nelle Olimpiadi disputate tre anni prima nella stessa città, imbattuto da professionista dopo la bellezza di venticinque incontri per la maggior parte risolti per ko, in attesa, si vocifera, di incrociare i guantoni con Cassius Clay, affronta il pari peso americano Wayne Bethea.

Se non è un campione, certo il nero Usa in questione è un ottimo pugile dotato di una bella varietà di colpi e in grado, se in vena, di mettere a nanna chiunque.

Poche ore prima che i due salgano sul ring il manager di Bethea chiede udienza a Rino Tommasi, l’organizzatore del match.

“Mi dicono che De Piccoli abbia la mascella di vetro.

Un compenso a parte e ti garantisco che Wayne si farà premura di non fargli male” è la proposta che avanza.

Ma a Tommasi le pastette non interessano.

Che, come si dice, vinca il migliore.

A sera, nel quarto round, un colpo assai bene assestato, proprio alla punta del mento, e De Piccoli è out.

E’ l’inizio della fine: combatterà un’ultima volta pochi mesi dopo contro Joe Bygraves per finire nel mondo dei sogni alla seconda ripresa.

Così, a spese dell’ex olimpionico, scoprimmo quanto sul quadrato possa essere pericoloso un ‘becco a gas’, come gergalmente nel mondo della boxe d’oltre oceano chiamano i pugili alla Bethea dotati di un cazzotto che può fare davvero male e quindi, volendo, letali come letale è, se mal funzionante, l’aggeggio meccanico in tal modo denominato.

 

 

Argilla

Kentucky, 1845: una folla inferocita impedisce al ricco possidente e (pentito) proprietario di schiavi Cassius Marcellus Clay di fondare un giornale antischiavista.

Louisville, ancora nel Kentucky, 17 gennaio 1942: i coniugi Clay, due giovani neri, decidono di chiamare Cassius Marcellus il neonato figlio.

Capitava negli USA nei Quaranta del Novecento, almeno un decennio prima che le questioni razziali venissero davvero alla ribalta, che, a rivendicare comunque la libertà e la parità non ancora ottenute, giovani di colore venissero battezzati con nomi di bianchi ‘illuminati’ e non per niente, in memoria del grande John Quincy Adams – in lontani momenti capace, pressoché solo, di lottare per l’abolizione dello schiavismo – un buon numero di neri oggi un po’ più che sessantacinquenni hanno come secondo nome proprio Quincy (si pensi al film ‘John Q.’ con Denzel Washington).

Cresciuto e arrivato al pugilato – una delle scorciatoie verso il successo e il denaro che da sempre in America le etnie in cerca di riscatto intraprendono – Cassius vince a Roma le Olimpiadi nei mediomassimi.

Convinto che la novella fama basti ad essere accettato, si scontra con la dura realtà del ‘suo’ Sud, malgrado tutto, ancora segregazionista, e ne soffre al punto di arrivare a gettare nel fiume Ohio la medaglia che non gli ha aperto nessuna via.

E’ da questo momento – devo pensare – che il Nostro, professionista e peso massimo, in qualche modo tenendo fede al cognome che porta (Clay vuol dire argilla, creta), comincia la propria trasformazione, modellandosi con grande intelligenza e senso dello spettacolo ‘comme il faut’, come si deve.

Ed ecco il boxeur più ricco di fantasia della storia in grado di danzare sul ring ‘come una farfalla’ e di pungere l’avversario ‘come un’ape’, il rimatore (ama, attraverso pochi ritmici versi, predire in quale round metterà a terra il malcapitato di turno), il provocatore.

Ed ecco il cambio di religione, l’adesione all’islam, la mutazione del nome che era comunque quello di un proprietario di schiavi per quanto progressista potesse essere stato.

Ed ecco il rifiuto, a costo di perdere il titolo e di essere squalificato, di andare in Vietnam.

Icona mondiale, per quasi vent’anni sarà in grado di stringere tra le mani la vita ma la modellabile argilla è pur sempre frangibile e una sfida quale la sua fin troppo usurante.

Epilogo triste e lungo: una persona provata dalla malattia, dal Parkinson che lo annichilisce.

‘Nomen omen’, dicevano i latini, e, per quanto Cassius Marcellus sia stato capace di reinventarsi di continuo, alla fine profonde e definitive crepe si sono aperte senza che sia più in grado di rimediare.

Soffre.

Silenziosamente, soffre.

Chapeau!

 

 

Un sommommolo, un gancio, un bolo punch…

un colpo purchessia

Lo so, lo so…passerà.

Una settimana, un mese, un anno o magari due…ma passerà.

Da quando ho scoperto ‘youtube’ sono come impazzito.

Vedo e ascolto, saltabeccando secondo ispirazione.

Ma soprattutto – e non riesco a saziarmene – guardo e riguardo tutti i filmati che rappresentano Rocky Marciano in azione.

Piccolo per essere un peso massimo, opposto quasi sempre a bestioni molto più alti e grossi, Rocky era un carrarmato, avanzava sempre, incassava anche le cannonate, picchiava come un fabbro e, alla fine, gli avversari non ne potevano più e mollavano.

Unico nella storia della boxe tra i campioni del mondo, si è ritirato imbattuto: quarantanove combattimenti, quarantatre ko e sei vittorie ai punti.

A parte le sonanti affermazioni su Joe Luis e Archie Moore (due ‘grandissimi’ stesi senza rimedio), l’essenza del pugilato del Nostro si coglie guardando – magari al rallentatore – il tredicesimo round del match che gli permise di arrivare alla cintura.

Corre il 1952 e il titolo è ancora nelle mani di Jersey Joe Walcott che per dodici riprese, con classe, è riuscito a tenere a bada Marciano colpendolo anche e mica male.

I due si alzano e vanno a centro ring.

Rocky, quasi fosse un serpente, si abbassa pronto allo scatto e al morso.

Il campione lo tiene lontano girando per il quadrato una quarantina di secondi.

Ma ecco che Rocky riesce ad inquadrarlo vicino alle corde.

Un corto gancio destro alla mascella e le luci per Walcott si spengono.

Il successivo, saettante, sinistro alla tempia è forse un tocco in più, non necessario ma esemplare.

Jersey Joe cade in avanti, sulla sua sinistra.

Piegato con la testa a toccare il tavolato, subito si accascia.

Ci vorrà del bello e del buono, dopo, per rimetterlo in piedi.

Impossibile, ve l’assicuro, ‘lavorare’ meglio tra le dodici corde.

 

 

Vladimir Klitscko

Mercoledì 14 luglio 2010, Luino, verso sera.

Nella magnifica cornice dell’hotel ristorante Camin, incontro il campione mondiale in carica dei pesi massimi Vladimir Klitscko.

E’ ucraino, ma dopo aver vinto la medaglia d’oro dei supermassimi alle Olimpiadi nel 1998, ha svolto l’attività professionistica in Germania e negli USA.

Parla indifferentemente tedesco e inglese ed è fisicamente la negazione del pugile come lo si immaginava e concretamente vedeva una volta.

Alto una buona spanna più del sottoscritto (il che vuol dire altrettanto di più di Rocky Marciano, l’unico detentore di una cintura mondiale ritiratosi imbattuto) è un longilineo che nel combattere si affida al jab sinistro con il quale tiene a distanza i rivali e prepara il formidabile diretto destro non disdegnando i ganci.

Fortissimo, sfrutta sul ring prima di tutto la propria intelligenza.

Con il fratello Vitaly (detentore a sua volta di una porzione del titolo, oramai da decenni diviso tra le differenti federazioni mondiali), ha messo fine al pressoché cinquantennale dominio dei pugili di colore nella categoria.

E’ contento di essere in Italia.

Luino e il Maggiore, ovviamente, lo hanno affascinato.

E’ felice anche perché, girando, nessuno lo riconosce, mentre in Germania e negli Stati Uniti non può fare un passo senza che qualcuno lo fermi e gli chieda l’autografo.

Un po’ di pace…

Fatto è, gli dico, che da noi la boxe è praticamente morta e i pochi veri campioni che abbiamo preferiscono restare dilettanti.

Penso, naturalmente, così dicendo, a Roberto Cammarelle, medaglia d’oro olimpica e due volte mondiale con la maglietta.

Ed ecco che mi viene un’idea.

“Si ricorda di Floyd Patterson?”, gli chiedo. “Il detentore della massima cintura succeduto a Marciano?

A seguito delle Olimpiadi del 1956, accettò di incontrare per il titolo Pete Rademacher e cioè il vincitore del torneo di Melbourne che contro di lui passava al professionismo.

Era la prima volta (ed è rimasta l’unica) in cui un debuttante si batteva direttamente per il mondiale.

Per la storia, Pete mise giù Patterson al secondo round ma non fu capace di finirlo e andò ko al sesto.

Potremmo inventarci qualcosa di simile con Cammarelle, no?”

Vladimir è un vero professionista e, in ragione di ciò, risponde:

“Si può fare certamente. E’ solo una questione di soldi”.

Lancio, quindi, qui e adesso pubblicamente l’idea.

Occorre un organizzatore con gli attributi.

Magari, un Rino Tommasi giovane.

 

 

“We have a split decision”

9 febbraio 1940, Madison Square Garden, New York.

Per la cintura mondiale dei pesi massimi, il detentore Joe Louis incontra il cileno Arturo Godoy, sfidante.

I bookmaker danno la vittoria del sudamericano a dieci contro uno.

Quindici durissime riprese e già arrivare a sentire il suono dell’ultima campana quando sul quadrato ci si imbatte nel ‘bombardiere nero’ è un mezzo miracolo.

Ancora più stupefacente, poi, trovarsi in vantaggio ai punti.

In piedi a centro ring, Godoy e il suo manager attendono frementi che lo speaker legga i cartellini.

Immenso il loro disappunto, sottolineato da gesti pieni di amarezza, quando sentono che, sia pure con una ‘split decision’ avendo un giudice largamente riconosciuto la prevalenza dello sfidante, Louis conserva la corona.

Un verdetto farlocco che il New York Times definirà “un grosso regalo” il giorno dopo.

Ma, che volete?, si trattava di una questione di pelle: per un contendente non del medesimo colore era impossibile, se non stendendolo per il conto totale, allora sconfiggere il peraltro ottimo campione.

 

Anche perché difeso, in quanto nero, dal ‘politicamente corretto’, Louis è stato per lunghi, lunghi anni veramente intoccabile.

 

 

Oddone

Sei l’ottavo e tuo padre è fissato coi nomi che cominciano con la o.

Hai fratelli e sorelle che si chiamano Otello, Olga, Ottavio e così via.

Ti tocca Oddone.

Sali presto sul ring. Devi sfogare una qualche tua rabbia e meglio tra le dodici corde che altrove.

Non vai male e tra i professionisti quando sali di categoria inanelli una bella serie di vittorie.

Una sola battuta d’arresto, non significativa.

E allora pensi all’America.

E’ oltre oceano che si guadagna.

E’ oltre oceano che puoi combattere coi migliori.

E’ oltre oceano che ci si gioca la cintura.

Quella di campione del mondo.

E vinci anche là.

Il grande Mickey Walker ha lasciato il titolo per salire di categoria.

Un torneo a eliminazione tra i migliori pesi medi per trovarne il degno successore.

A Milwaukee e ci sei anche tu, Oddone Piazza.

Una vittoria e un pareggio.

E il 25 gennaio 1932 eccoti in finale.

Sei il primo italiano arrivato tanto vicino alla più ambita delle mete.

Gorilla Jones viene dall’Ohio e picchia duro.

Non ce la fai e alla sesta ripresa le luci si spengono.

Combatterai di bel nuovo ma non sarà la stessa cosa.

Sei rotto dentro e nei prossimi sei anni perderai e perderai.

Lontana controfigura del bel pugile di una volta.

Perché?

Sandro Mazzinghi

28 maggio 2013

 

(Come tutti i varesini della mia età, infiniti anni orsono, ho molte volte incontrato in città Sandro Mazzinghi. Boxava per la ‘colonia Ignis’ ed era un protetto del commendator Giovanni Borghi. Con lui, spesso, il fratello maggiore Guido. L’ammiravo da lontano, non osando importunarlo. Ci siamo, invece, conosciuti una dozzina d’anni fa, in occasione di una cerimonia commemorativa proprio del mitico ‘Cumenda’. Tengo, da allora, tra i miei più cari cimeli la foto che ci ritrae vicini e sorridenti. Grazie, Sandro, per l’ amicizia dipoi coltivata. Grazie per essere stato ed essere l’uomo che sei!)

 

“Ero molto povero e con il pugilato ho trovato il pieno riscatto”

“Eravamo dei trascinatori, uomini di tempra

e, se me lo permetti, di grande carisma”

“Rifarei tutto allo stesso modo”

“L’importante, alla fine, è stare bene!”

 

 

D. Comincerò con una domanda particolare e articolata, dettata dall’invidia.

Devi sapere che nel 2005 sono stato finalista del Premio Bancarella Sport ma non l’ho vinto.

Tu invece sì e con un libro dal titolo davvero speciale, ‘Pugni amari’.

Immagino la tua soddisfazione.

Cosa ti aveva spinto allora a prendere la penna in mano?

Quale urgenza?

Perché ‘amari’, quei pugni?

R. Beh, intanto sono lusingato di destarti invidia, ma scherzi a parte ho scritto ‘Pugni Amari’ grazie anche al giornalista Michelangelo Corazza perché avevo ancora molto da dire al mio pubblico e perché ho subito molte ingiustizie nella vita.

Sono sempre stato un uomo pulito ed onesto e forse proprio per questo mio carattere schietto non andavo giù a qualcuno.

E’ stata una soddisfazione enorme l’uscita della mia biografia, con ampi consensi sia di pubblico che di critica.

‘Pugni amari’ perché ho visto l’ingratitudine di tutte quelle persone che finché ero ‘il Campione’ con la c maiuscola avrebbero fatto carte false pur di starmi  vicino per abbandonarmi invece quando non sono più stato il Mazzinghi che strappava caratteri cubitali sui giornali e questo non è bello.

D. La ‘nobile arte’ – lo si chiamava così il pugilato in tempi oramai lontani – è ai nostri giorni negletta.

Viene considerata da molti, se non dalla più parte della gente, come qualcosa di brutale e di selvaggio.

Ha perso quell’appeal, quel seguito entusiasta sul quale poteva contare senza timore.

Tu hai riempito San Siro: sessantamila spettatori.

Oggi, non è nemmeno pensabile che chiunque possa anche solo riuscire a far programmare nello stadio milanese un qualsiasi incontro.

Cosa, a tuo parere, ha causato questo tramonto?

R. Devo dire che le cause sono molte.

Una di queste è il troppo benessere (per carità, meglio così).

Noi si proveniva da situazioni particolari.

Io ero molto povero e con il pugilato ho trovato il pieno riscatto.

Oggi riempire uno stadio come quello di San Siro con sessantamila persone per un incontro di pugilato è vera utopia.

Eravamo trascinatori, uomini di tempra e, se posso permettermi, con grande carisma.

Il pugilato è una disciplina bellissima.

Può sembrare brutale, ma ti assicuro che non è così.

Basta vedere quando termina il match: i due gladiatori si abbracciano ed è la cosa più bella del mondo

D. Credo te l’abbiano chiesto in molti, ma cosa ti ha spinto sul quadrato?

Quale la tua motivazione?

I successi – non all’altezza dei tuoi, per carità – di tuo fratello maggiore Guido?

Un qualche desiderio di rivalsa?

Il bisogno?

R. Hai detto giusto: tutte e tre queste cose.

Vedevo mio fratello combattere e lui all’epoca era un bel campione, e io ero piccolo e mi immaginavo che un giorno sarei stato come Guido.

Mi affascinava talmente tanto che lo volevo copiare in tutto.

Poi, le condizioni economiche in cui la mia famiglia versava.

Erano momenti difficili e io con il pugilato ho avuto il riscatto di tutto.

Con il pugilato ho reso felice la mia famiglia che tanto aveva sofferto e sacrificato per crescere noi figlioli.

D. E come hai affrontato gli infiniti sacrifici che una carriera pugilistica di altissimo livello in qualche modo impone?

A cosa, a quali affetti, hai dovuto rinunciare?

R. Caro Mauro, e se ti dicessi che non ho rinunciato a nessun affetto?

Ti spiego.

Ho avuto una carriera ad altissimi livelli e quando dovevo affrontare immensi sacrifici, li affrontavo con totale naturalezza perché amavo il mio lavoro più di qualunque altra cosa e per me era appunto naturale il sacrificio.

Se rinascessi rifarei tutto allo stesso modo.

Sono stati momenti irripetibili, immensi, profondi, che non si possono dimenticare.

D. Hai capito subito, ‘sapevi’, di essere destinato alla gloria sul ring?

Cosa ha voluto dire per te il vincere da dilettante i Mondiali militari in America?

Fu la conferma?

R. Volevo diventare un campione a tutti i costi.

Oltre ad emulare mio fratello, amavo Roky Graziano e mi affascinava la sua storia che vidi da bambino in un cinema della mia città.

‘Lassù qualcuno mi ama’, la pellicola, interpretata dal grande Paul Newman.

E dentro di me, dopo aver visto quel magico film, ripetevo in continuazione: “Alessandro, anche tu un giorno diventerai un campione”.

E quando da dilettante vinsi i Mondiali militari in America fu la conferma che ce la potevo fare.

D. Cosa si prova a dare e prendere pugni?

Quale mai forza ti faceva restare in piedi e reagire superbamente quando colpito duramente?

R. Quando salivo sul ring ero talmente concentrato che a volte non sentivo neanche i colpi.

Avevo una grande preparazione atletica.

Ero meticoloso nel prepararmi.

Addirittura andavo in ritiro tre/quattro mesi prima dei match e questo influiva moltissimo quando c’èra da incassare colpi durissimi e credimi ne ho incassati non so quanti.

D. Sessantanove combattimenti – e che combattimenti – e tre sole sconfitte, due delle quali con Nino Benvenuti.

Penso che la seconda volta non avessi perso, ma, questo a parte, come hai affrontato e superato – tanto da riconquistare il mondiale – l’amarezza conseguente?

E con Nino, quali, dopo e oggi, se ci sono, i rapporti?

R. Hai ragione, il secondo match con Benvenuti l’avevo meritatamente vinto, ma purtroppo le cose andarono come sappiamo e non voglio star qui a rifar polemiche chi mi conosce sa come andarono i fatti.

Il dopo Benvenuti per me è stato il ripartire da capo.

Riconquistai l’europeo per ben quattro volte con degli avversari durissimi. L’ultimo a Stoccolma con quella furia di Bo Hogberg.

Fu un match fantastico.

Ma la più grande soddisfazione l’ho avuta quel 26 maggio del 1968 a San Siro, con sessantamila spettatori, contro il coreano Kim So Kim.

Fu un incontro durissimo: due tori nell’arena, quindici intensissime riprese di pura follia e ritornai in possesso del titolo del mondo.

Quel titolo che era stato già mio tre anni prima e che la sorte beffarda mi aveva portato via ingiustamente.

Con Benvenuti sono anni che non ci vediamo.

Lui ha la sua vita ed io la mia.

L’importante, alla fine, è stare bene!

D. Hai terre nella tua Toscana, produci olio e vino.

Ti appaga la terra?

Hai ancora dentro di te quel fremito, quell’ardore, quella voglia, quel desiderio infinito di prevalere?

Se così è, come lo domi?

R. Si, nella mia proprietà ho molta terra e coltivo un buon vino rosso e bianco.

Coltivare le viti mi è sempre piaciuto.

Lavorare la terra mi appaga moltissimo perche la lavori con amore e lei con amore ti da i suoi frutti.

E’ bellissimo.

In gioventù avevo un carattere abbastanza esuberante, tipico di noi toscani.

Avevo quel desiderio di prevalere sempre, perché la voglia dentro di arrivare era tanta.

Oggi sono un po’ più pacato, ma il cavallo di razza è sempre dentro di me.

D. Sai di essere per molti – ed io tra loro – una leggenda?

R. Non mi fare arrossire.

Se voi tutti dite che sono una leggenda, grazie per me è un onore saperlo. Vuol dire che ho lasciato un buon ricordo per quel che ho fatto.

Io so solo che sono Sandro, una persona semplice…

D. Sei, amico mio, credente?

R. Certo, sono credente.

La fede per me è sempre stata importante sia sul quadrato che nel cammino della vita.

Se non avessi avuto fede, forse non avrei superato quei momenti difficili che la vita a volte ti presenta……………

Un abbraccio a tutti

Sandro Mazzinghi