Un incontro duemila anni dopo

I due furono presentati da un amico comune.

“Forse ignorate – egli disse sorridendo – che venti secoli fa per qualche anno siete vissuti in una stessa città, per l’esattezza a Gerusalemme, ed avreste potuto conoscervi”.

Il romano non lo sapeva: “Sono stato a Gerusalemme, è vero – disse – ma per la mia posizione pubblica non potevo certo conoscere tutti gli abitanti della regione, specie quelli delle classi popolari”.

Egli era stato infatti attorno agli anni 780 a.U.c. prefetto della Giudea e non sembrava ricordare con piacere quel periodo della sua vita pubblica.

L’altro, l’ebreo, in quella città era nato ed aveva abitato dalla nascita alla morte, che si era data egli stesso.

Ricordava perfettamente che quando era ancora vivo sapeva benissimo chi fosse quel romano.

“È  normale che chi sta in basso della scala sociale ed in quel caso anche nazionale, sappia chi sono i suoi reggitori o per meglio dire  gli oppressori del suo popolo.

Mi scusi se parlo così – aggiunse – so bene che ormai è acqua passata, ma è quello che di lei pensavo all’epoca”.

La conversazione si svolgeva in un luogo senza spazio e senza tempo, sotto una specie di sottile caligine.

Ormai i tre, privi del presente ed a maggior ragione del futuro, non avevano altro da fare che riandare al passato.

“Non soltanto – continuò il cortese presentatore – abitavate in quella città, ma forse ignorate che siete stati entrambi implicati, evidentemente in maniera diversa, in un episodio che fece epoca e che ha addirittura cambiato la storia del mondo, un episodio avvenuto nell’anno 786.

Ed ad ognuno di voi, proprio a causa di quella storia, i posteri hanno affibbiato una cattiva fama”.

Duccio da Boninsegna, Pilato si lava le mani, Sec. XIII
Duccio da Boninsegna, Pilato si lava le mani, Sec. XIII

Ancora una volta l’ebreo sapeva perfettamente di  cosa si trattava e reagì:

“Lo so – esclamò – ed è una autentica ingiustizia, sono stato chiamato traditore, con un termine di cui il mio nome è diventato un sinonimo, e ciò soltanto perché ho fatto quello che ritenevo giusto e che addirittura – pensavo – avrebbe soddisfatto tutti quanti…

Semmai la colpa è sua, aggiunse rivolgendosi al romano.

Non voglio offenderla, ma se lei non se ne fosse lavate le mani…”

“Senti, senti – disse il romano – mi si imputa un gesto di igiene elementare.

Ma se lei usa questa espressione come una metafora, le dirò che non so a che cosa esattamente si riferisca e non ricordo l’episodio di cui entrambi parlate.

Certo, non nego che durante il mio cursus honorum (lo chiamavamo così, ma spesso,  credetemi, era una vera e propria via crucis),  come politico e funzionario ho più volte evitato di prendere delle posizioni nette a scanso di complicazioni.

D’altronde cosa mai avrei potuto fare,  quando mi trovavo a governare su una popolazione riottosa e rissosa, come – mi permetta di dirglielo (e si rivolse all’ebreo) – quella dei suoi connazionali?

Ricorderà che la vostra massima occupazione consisteva nella tetratricotomia (spaccare il capello in quattro,  tradusse per l’ebreo) e nel polemizzare senza sosta sull’interpretazione di testi astrusi ed  incomprensibili.

Non ricorda le interminabili diatribe tra esseni, farisei, sadducei e scribi, che solo per il fatto di sapere scrivere si ritenevano gli unici detentori della verità?.

E non parlo degli zeloti, sempre pronti a menar le mani.

Che doveva fare un povero politico-funzionario, il cui compito principale doveva consistere nel mantenere l’ordine pubblico e nell’evitare che gli abitanti, dopo essersi combattuti tra di loro, si coalizzassero contro i pubblici poteri e trasformassero una perpetua guerra civile in una lotta di indipendenza?

Non mi restava altro che evitare di parteggiare per gli uni o per gli altri ed in definitiva – come dice lei – lavarmene le mani.

Che quel mio comportamento, quel voler mantenermi distaccato dalle vostre eterne dispute fosse la scelta più saggia è stato dimostrato da quel che successe una quarantina di anni dopo, quando i suoi connazionali, che continuavano a dilaniarsi tra di loro, costrinsero il futuro imperatore Tito a distruggere il vostro tempio e cacciarvi da quel territorio”.

“Ammetta però che i miei connazionali prima di essere sconfitti ve ne diedero di santa ragione”, disse piccato l’ebreo non senza una punta di orgoglio.

A questo punto il presentatore, anche per evitare che la conversazione scivolasse sulla contesa patriottica, intervenne e tornò su un’affermazione fatta precedentemente dall’ebreo a cui chiese:

“In che senso lei ha detto che credeva di accontentare tutti con la Sua azione?”.

Cimabue, "Il bacio di Giuda", sec. XIV
Cimabue, “Il bacio di Giuda”, sec. XIV

“Anzitutto – rispose l’ebreo –  i capi della comunità volevano sbarazzarsi dell’Uomo che io ed i miei amici frequentavamo per udire le Sue parole di saggezza, soggiacendo a quel che si chiama il suo carisma.

Non fu per i trenta denari che accettai l’incarico, per quanto si trattasse di una discreta sommetta che però non cambiava la mia situazione.

Pensavo, piuttosto che era giusto obbedire agli ordini dei nostri capi che ne sapevano più di noi.

D’altronde era evidente che ciò che mi si chiedeva di fare non era veramente determinante.

Tutti conoscevano le fattezze del Maestro, che la domenica precedente era stato visto per le strade di Gerusalemme,  addirittura osannato dalla popolazione festante, che lo aveva salutato agitando rami di palma.

Gli abitanti della città, avvertiti del Suo arrivo, lo avevano atteso e per festeggiarlo avevano coperto il suo cammino con i loro mantelli e con stoffe preziose.

Volete che la scena non fosse stata notata dagli sgherri della potenza occupante?

Il mio bacio sarebbe dunque stato superfluo, ma – a quanto pare – era stato  ritenuto indispensabile che io svolgessi il compito di indicarlo alla soldataglia.

Ritenuto da chi?

Non saprei rispondere, sentivo soltanto che ero tenuto ad eseguire quel compito.

Ebbi l’impressione che neanche il Maestro fosse contrario a che io svolgessi quella parte.

Ricordo che quando durante la Cena Egli disse: “Qualcuno di voi mi tradirà” guardò me e me soltanto in modo significativo.

Credetti di riconoscere nel suo sguardo un cenno d’intesa, come se Egli volesse raccomandarmi di non dimenticare ciò che avrei dovuto fare.

Ecco perché quando tutti già sin da allora mi considerarono un traditore e mi disprezzarono, fui io a considerarmi tradito, e fu questa la vera ragione del mio suicidio.

Non arrivo a dire che dovrei essere proclamato santo e meno ancora, come ha insinuato un certo Borges, che il vero Salvatore dell’Umanità sono io, ma avermi chiamato  traditore e trattarmi da tale è veramente troppo”.

Il romano aveva seguito la lunga perorazione con un’aria di profonda comprensione:

“Molto interessante” – disse, ma si vedeva benissimo che in cuor suo continuava a pensare che qualunque fosse stato l’episodio richiamato da quei due, egli aveva fatto bene ad essersene lavate le mani.

Alberto Indelicato