Ultime carezze

Gli ho portato  in clinica il suo adorato bassotto ma non volevano farmi passare.

Ho insistito spiegando il caso e mi hanno concesso solo dieci  minuti, con una postilla: “Perché è lei”.

Sarò io, ma il protagonista è lui.

Ancora giovane, gli restano pochi mesi di vita (non uso l’orrenda espressione “malato terminale”, i terminali sono quelli del computer, gli uomini muoiono. Non terminano).

La sua casa si è ridotta a una stanza d’ospedale.

Gli hanno portato il videoregistratore, uno scaffale di libri, qualche souvenir di viaggi esotici.

Hanno tentato con il suo amatissimo cagnetto, ma i regolamenti sanitari non transigono (eccettuati i miei miseri dieci minuti).

È maledettamente lucido.

Persino spiritoso quando c’è gente.

E nessuno ha il diritto di chiedergli cosa pensa quando è solo.

Per fortuna non soffre (si dice sempre così).

Gli amici sono venuti a trovarlo qualche volta, poi sono spariti: non sanno come comportarsi né cosa dire.

Sanno che lui sa, e sa pure che lo sanno loro.

E questo li blocca.

Uno gli racconta le ultime dell’ufficio, lo fa persino ridere.

Ma il suo sorriso si spegne e gli occhi vanno via: forse si aspetterebbe parole più vicine alla sua invisibile pena.

Ma l’altro non le sa trovare.

Per fortuna ci sono le donne: si son fatte vive tutte, la ex moglie, le colleghe, le compagne di amori lontani.

Piombano in clinica con dolcetti, pupazzi di peluche, una ha azzardato un mazzo di fiori variopinti: ‘un colore per ogni desiderio’, ha scritto sul biglietto.
Anche loro scherzano, raccontano dell’ufficio, spettegolano sull’ultimo amore di un’amica comune.

Ma con loro è diverso: parlando lo guardano negli occhi (non scivolano via con lo sguardo come fanno i compagni).

Pronunciano la parola proibita, ma raccontano (o s’inventano) di tumori regrediti.
Capiscono che lui deve aggrapparsi a qualcosa e glielo offrono: riescono a immedesimarsi nella sua speranza e la recita diventa convincente.

Ma soprattutto è la tenerezza innata con cui sanno riempire un silenzio prendendogli la mano e sfiorargli la fronte con un bacio, come fosse un grande bambino col morbillo.

Le femmine riescono ad essere materne con le bambole, con l’amante, col padre, con la madre, con un amico che muore.

Le donne hanno meno paura di morire: fanno le diete per l’estetica e non per la salute, fumano come dannate, non gli interessa la vita oltre l’età della decadenza fisica.

In una serata fra amici chi parla di colesterolo e di ecografie sono gli uomini: hanno rinunciato alle sigarette, agli alcolici, al fritto, agli insaccati. Per allungarsi un po’ la vita: cent’anni, magari in carrozzella, come diceva Mastroianni.
Gli amici telefonano ma non si fanno più vedere, per non specchiarsi in quel viso spento sul guanciale.

Solo le amiche, dicevo, ci sono tutte, e riescono a fare compagnia alla sua ultima solitudine.

Una misteriosa connessione fra lui e le  femmine

Lo avrebbe aiutato anche il suo vietatissimo bassotto.

Me ne sono accorto da come si è illuminato quando lo ha visto entrare.

E pure la bestiola sembrava impazzita, erano mesi che il suo padrone era sparito.

L’allegra malinconia di quell’incontro mi ha ricordato i delfini terapeutici.

Il bassotto non aveva i loro poteri, non avrebbe allungato di un minuto la vita di quell’uomo.

Forse gliel’avrebbe addirittura accorciata di un attimo, perché non era un bassotto asettico e gli aveva passato la lingua su tutta la faccia.

Ma che importanza aveva, di fronte a quel pulviscolo di gioia che gli poteva regalare?

Perché ai condannati a morte non si nega l’ultimo desiderio e a un “malato terminale” sì?

Luca Goldoni