Il tempo delle vacanze e il suo significato antropologico

In base ai dati dell’Organizzazione mondiale per il turismo (OMT) e dell’Agenzia italiana del turismo (ENIT) il numero di persone che hanno viaggiato nel 2016 ammonta a 1 miliardo e 186 milioni, di cui 607 milioni hanno scelto come meta l’Europa. Le destinazioni preferite sono state nell’ordine Francia, Stati Uniti, Spagna, Cina e Italia. I turisti che hanno optato per il nostro paese provenivano soprattutto da Germania, Stati Uniti, Francia, Cina e Gran Bretagna, mentre le regioni più visitate sono state Veneto, Trentino Alto Adige, Toscana, Lombardia e Lazio. Nel medesimo anno l’attività turistica ha comportato in Italia introiti pari a 37 miliardi di euro.

Al di là dei numeri, l’esperienza delle vacanze appartiene alla nostra vita fin dal suo principio. Pensiamo alla parola partenza, che proviene dalla stessa etimologia latina del sostantivo parto, ossia dal verbo pario che significa appunto partorire, generare, creare. I due termini hanno in comune l’idea del distacco e della separazione, ma anche quella dell’inizio di un nuovo viaggio. Restando in ambito etimologico, viaggio appunto deriva anch’esso dal latino viaticum attraverso la voce provenzale viatge, entrambi con il significato di ciò che serve durante un trasferimento. Ancora di origini latine è la parola vacanza che viene infatti da vacuum, cioè vuoto e sta perciò a intendere il concetto molto più moderno di tempo libero dalle occupazioni quotidiane. Più recente è infine il termine turismo che ha le sue origini nel francese tour e nella aristocratica abitudine settecentesca del viaggio culturale in Europa.

La vocazione migratoria è comunque molto antica poiché affonda le sue radici nell’attitudine nomade dei popoli primitivi, al punto che si è parlato a livello psicologico di una inconscia condizione itinerante la quale sarebbe rimasta nella memoria collettiva come desiderio di ricerca e di conquista di nuovi spazi; inoltre l’abitudine di cullare i neonati e la rassicurazione che ne deriva per loro risalirebbe anch’essa al movimento oscillatorio a cui erano sottoposti i bambini durante i lunghi viaggi delle donne nomadi. Nel mito il viaggio rappresenta un topos assai frequente, a partire dalla epopea persiana dell’eroe Gilgamesh, fino a alle peregrinazioni di Ulisse e alle narrazioni leggendarie di Marco Polo in seguito alla sua permanenza nel Catai. In età antica il viaggiatore era ritenuto un ospite sacro e perciò accolto con grande ospitalità; ciò nonostante, la sua condizione lo esponeva anche a seri pericoli, visto che, essendo sacro, rischiava a volte di essere sacrificato alle divinità in qualità di vittima sacrificale (hostia). Durante l’età medioevale i viaggi vennero condotti per numerose ragioni, quasi sempre concomitanti tra loro: per motivi economici, militari e religiosi furono avviati i pellegrinaggi, le crociate, le esplorazioni nel Mediterraneo e in seguito, dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi nel 1453, anche quelle portoghesi lungo le coste dell’Africa e quelle spagnole verso ovest seguendo la rotta oceanica. Nella cultura cristiana l’accoglienza del viaggiatore è gratuita e incondizionata sulla base delle parole di Gesù “Ero forestiero e voi mi avete accolto” (Mt 25, 35); il viaggio veniva in ogni caso considerato un’esperienza pericolosa e sgradevole ed era infatti spesso associato all’idea della penitenza e della espiazione dei propri peccati, anche in considerazione della metafora della vita stessa come viaggio ed esilio fuori dalla vera patria che è il regno dei cieli (“exules filii Evae” recita l’antifona mariana nota con il nome di Salve Regina).

Solo in età moderna l’ospitalità divenne un’attività lucrativa a pagamento la quale si diffuse progressivamente quando il viaggio da esperienza esclusiva si traformò via via in una possibilità aperta a un numero sempre maggiore di persone: risale al 1841 l’invenzione dei viaggi di gruppo da parte del pastore inglese Thomas Cook il quale radunò 570 persone per una escursione ferroviaria di 11 miglia dalla città di Leicester. Più o meno negli stessi anni l’abate veneziano Toaldo osservava in un sermone: “Il viaggiare è divenuto un capo di moda: una certa smania, o vogliamola dir mania. Ha invaso gli spiriti, e come al tempo delle crociate, le persone di ogni condizione, i ragazzi stessi, colti da una spezie di sonnambolismo vanno correndo qua e là i paesi gli uni dietro gli altri, e dove gli uni vanno, gli altri vanno, e lo perché non sanno”. Anche Antonio Fogazzaro nel suo Diario di viaggio in Svizzera del 1868 descrive sgomento “i manipoli della invasione barbarica che si versa ogni anno” dal Gottardo. L’invenzione del tempo libero e la moda del viaggio di piacere comportò a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo anche quel processo di meccanizzazione della montagna di cui ancora oggi da più parti ci si lamenta. Nel corso del ventesimo secolo, anche grazie alla introduzione delle ferie retribuite, il turismo è divenuto un’industria che produce la sua merce, nella migliore delle ipotesi vendendo sogni; più prosaicamente la merce dell’azienda turismo sono i turisti stessi, soprattutto quando si ritrovano irregimentati in quella organizzazione che sta a metà tra il militare e il carnevalesco che è il villaggio turistico, i cui ospiti vengono sprezzantemente chiamati cash cows, cioè mucche da incasso. Del resto, diceva già nel 1975 il sociologo francese Bernard Lerivray nel suo Guides bleus, guides verts et lunettes roses, i turisti vedono il mondo con gli occhiali rosa. Più recentemente (nel 1992) Marc Augé, etnologo e antropologo di Poitiers, ha introdotto il concetto di non luogo per identificare quegli spazi non identitari, non relazionali e non storici in cui ci si incontra senza entrare in relazione, spinti solo dal desiderio di spostarsi o di consumare (non luoghi sono le autostrade, gli aeroporti, i centri commerciali). Un tipico esempio di non luogo è la stazione sciistica costruita a Dubai all’interno del centro commerciale Mall of the Emirates, la quale è composta da cinque piste, un rifugio alpino e una scuola di sci, naturalmente nel mezzo del deserto.  

Resta però aperta la domanda di fondo: perché partire? Premesso il fatto che andare in vacanza sia ormai diventato un dovere, tanto che chi non va in ferie è costretto a giustificarsi spiegando dettagliatamente le ragioni – reali o presunte – della sua scelta, viaggiare risponde a un desiderio collettivo di evasione, alla velleità di emulare Ulisse o Vasco da Gama verso la conquista dell’ignoto, e anche a una più o meno consapevole nostalgia del paradiso perduto il quale coincide di solito con una località remota che i cataloghi delle agenzie di viaggio propagandano come esclusiva e conseguentemente non turistica (riservata quindi ai soli veri viaggiatori). Dalle fatiche della vacanza rimangono immuni anche gli armchair travellers, ossia coloro che si limitano a spostarsi con l’immaginazione leggendo diari di viaggio o guide turistiche seduti in poltrona. Eccezion fatta per costoro, per tutti gli altri si apre a questo punto la questione della scelta del dove e del come: non solo quindi la destinazione, ma anche lo stile del viaggio (individuale, di coppia, con amici, di gruppo, culturale, di svago, avventuroso, rilassante e molti altri ancora). Qualunque sia la decisione presa, questa è una di quelle fasi del viaggio in cui esso assomiglia in modo più evidente alla vita, la quale continuamente pone chiunque di fronte alla necessità di una scelta e quindi a quel momento che Kierkegaard definiva di paralisi, dovuto al numero potenzialmente infinito di opzioni e alla inevitabile esclusione di tutte le altre per privilegiarne una sola, senza peraltro la certezza che si tratti di quella migliore.

I preparativi del viaggio poi iniziano molto prima della partenza, poiché si fondano sull’immaginario e sulle aspettative che il viaggiatore si crea sulla base delle informazioni raccolte durante le sue letture o dal racconto di chi ha già visitato quei luoghi; il viaggio della mente è dunque molto in anticipo rispetto a quello del corpo. Mentre i giorni scorrono, inoltre, il tempo si concentra sempre di più sulla vacanza imminente assumendo, come osserva l’antropologo Duccio Canestrini nel suo Andare a quel paese, una forma a cono grazie alla quale i pensieri si focalizzano sulla partenza escludendo piano piano gli interessi consueti.

In età romana prima di un viaggio venivano invocati i Lares viales, ossia le divinità protettrici dei viandanti. Oggi partire risulta molto più facile e divertente, ma comporta comunque importanti conseguenze sul piano psicosociale: al principio del viaggio si è costretti infatti a rinunciare ai propri abiti sociali, ad accettare la temporanea perdita della propria identità professionale e relazionale, a limitare le esigenze all’essenziale e soprattutto a sviluppare la capacità di affrontare il distacco dalle persone care, dagli animali di casa e dagli oggetti. La fase del transito, alla quale si riserva comunemente scarsa rilevanza, come un momento necessario ma privo di significato, può diventare invece un’ottima occasione per osservare il mondo e per cogliere le varietà del percorso che viene attraversato. Questo è il motivo per cui esistono anche in Italia gli slow travel, viaggi durnte i quali viene volutamente scelto il mezzo di trasporto più lento, preferibilmente in bicicletta o a piedi.

All’arrivo l’ospite si trova sempre fuori luogo, ed è per questa ragione che la sua comparsa in un ambiente che non gli appartiene innesca in lui stesso e negli abitanti locali una dinamica ambivalente di chiusura e di apertura, di rifiuto e di accoglienza. Ciò dipende da una serie di pregiudizi (individuali o collettivi, consapevoli o inconsci) esistenti sia negli indigeni nei confronti dei turisti (si pensi ad esempio alla turistofobia largamente diffusa nelle più famose località turistiche), sia negli ospiti stessi verso culture e tradizioni che appaiono lontane e talora incomprensibili (“Hic sunt leones” scrivevano i cartografi dell’età romana ai confini meridionali della provincia d’Africa). Ecco perché l’arrivo presso la propria destinazione di viaggio deve abituare al relativismo, alla responsabilità, all’autocoscienza e contemporaneamente alla capacità di riconoscere le costanti sociali che prescindono dalla cultura di appartenenza. Senza contare poi che la permanenza in un paese diverso dal proprio ha anche la funzione di allenare agli imprevisti, alle novità e al problem solving. In conclusione, del viaggio, così come della vita, esiste chi si accontenta della superficie e chi invece ne ricerca il senso profondo. Indubbiamente ogni viaggio ci cambia poiché, come affermava Chatwin, esso “non apre soltanto la mente, ma le dà una forma”.

Chiara Merlotti

26 luglio 2017