Teheran, la gloria del bazar

Proponiamo un interessantissimo capitolo  del libro inedito in Italia ‘Il turbante e la rosa, diario inaspettato di un ambasciatore in Iran’ di François Nicoullaud nella traduzione di Henry-Claire Nicoullaud. Segue il testo originale in francese. – MdPR

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In Iran, nel Bazar, l’individuo non conta, il gruppo invece è tutto; prima viene la famiglia che gestisce la bottega  poi la corporazione che regola le contese e organizza le sfilate nei giorni di festa e infine la comunità intera del bazar: concretizzazioni successive che danno all’insieme l’aspetto di un termitaio.

Conformemente alla vecchia tri-funzionalità indo-europea sottolineata da Georges Dumézil, il Bazar non è mai scollegato dagli altri due ordini, guerrieri e governanti da un lato, preti, mullah o bramini dall’altra.

Ne abbiamo un esempio a Isfahan  dove il bazar, strettamente saldato alla grande piazza reale, costeggia e, in alcuni punti  avvolge i palazzi e le moschee dello Scià.

Ciò è altrettanto visibile a Teheran dove i vicoli sfociano direttamente sulla corte interna della grande moschea reale e dove, tempo addietro, bastava traversare una strada per passare dal Golestan, residenza dei Qajar, ai viali del bazar.

Ad un tiro di schioppo dall’uscita del Palazzo c’era, c’è tutt’ora benché molto rovinata, la piazza d’entrata al più bel viale coperto del Bazar.

In quel luogo si formava la pubblica opinione.

Vi si tenevano assembramenti da far tremare i re.

Ma il Bazar di Teheran ha numerose altre entrate lungo il perimetro del quadrilatero che forma e che si estende per almeno quattro chilometri quadrati.

E’ un mondo in cui si penetra in linea di massima soltanto a piedi – per questo motivo le entrate sono complicate da ‘chicanes’ – e che è attraversato in permanenza, oltre che dalla folla dei clienti, da un’armata di facchini e proprietari di carretti.

I carretti sono qui costruiti tutti secondo uno stesso modello, una semplice piattaforma di legno con quattro ruote innestate su asse fisso e muniti nella parte posteriore di una barra utilizzata per spingere e simile,  più in grande, a quella delle carrozzine per neonati.

La fissità delle coppie di ruote rende molto scomodo l’affrontare una curva.

Per riuscirci, occorre, appoggiandosi con tutto il proprio peso sulla barra, sollevare le ruote anteriori e, alla bell’e meglio far girare il carico a forza di colpi di reni.

Ci si potrebbe chiedere perché questo modello primitivo non si sia evoluto.

Probabilmente perché la sua fissità garantisce una traiettoria in linea retta purchessia e di conseguenza la miglior stabilità per gli enormi carichi che tali mezzi debbono trasportare.

Quasi sempre sovraccarichi, lanciati a volte a velocità folli lungo i vicoli angusti del bazar da uomini dai pantaloni a sbuffo sempre di corsa (senz’altro pagati a cottimo), è molto difficile fermarli: al loro avvicinarsi, e se necessario al primo richiamo, ciascuno, ciascuna, si sposta senza discutere.

Riguardo ai carretti…basta così.

Ogni tanto transitano anche alcune motociclette che vengono issate a braccia al di sopra delle ‘chicanes’ poste all’entrata e perfino automobili e camionette che occupano quasi tutta la larghezza dei vicoli.

Ma questi veicoli circolano essenzialmente negli orari di chiusura, quando le ‘chicanes’ vengono tolte per permettere il passaggio delle merci più ingombranti, materiali da cantiere, autopompe dei vigili del fuoco e  mezzi per la raccolta della spazzatura.

Dunque il bazar è un mondo, con le sue vie principali, quelle secondarie, i suoi incroci, le sue corti interne poste molto spesso su più piani, i suoi caravanserragli facenti ancora, tutt’oggi, funzione di magazzini e depositi, le sue ampie sale a volta di fattura monumentale, le une ricoperte di ceramiche multicolorate, le altre al contrario austere come una prigione del Piranese; le sue immense porte di legno all’entrata di alcuni quartieri, massicce come portoni di fortezze e ciò nonostante aperte e chiuse ogni giorno, le sue dozzine di moschee e luoghi di preghiera e perfino la sua chiesa: una piccola chiesa di campagna con un minuscolo cortile disseminato di tombe di Inglesi, commercianti o amministratori, e anche di donne inglesi che li accompagnavano;  per finire, e soprattutto,  di tombe di neonati falciati in culla nella prima metà del XIX secolo.

Un mondo dal disordine organizzato perché ognuno vi si possa orientare, con i suoi quartieri dedicati gli uni ai tessuti e gli altri ai tappeti, altri ancora al vasellame, agli articoli scolastici, gli utensili per la cucina, catene e catenacci, macchine per cucire, biancheria intima, orologi, profumi e fino agli articoli da monte di pietà, i gioielli, le scarpe, gli accessori teatrali per commedie religiose : caschi, armature, piume, costumi di peluche da leone, che dire…un mondo in cui si entra perché si è quasi certi di trovare ciò che non si è trovato altrove.

In città, spesso i negozianti ti dicono, con una leggera inflessione di rispetto nella voce : “per questo, bisogna andare al Bazar…”.

“A quale bazar?” .

“Al Gran Bazar … “

L’orario di apertura del Bazar è piuttosto ridotto.

Il mattino si anima solo verso le dieci e inizia a chiudere il pomeriggio verso le diciassette e a volte anche prima se è vigilia di festa.

Allora fin dalle ore sedici le vie vengono chiuse e ripiegati i battenti delle porte monumentali per isolare i quartieri gli uni dagli altri; le luci si spengono, i vicoli si svuotano e ciascuno si affretta all’uscita.

E di feste, in Iran, ce ne sono parecchie, tra le nascite  e le morti degli Imam, i molteplici episodi della vita del Profeta e gli anniversari ufficiali della Rivoluzione islamica.

Ma anche se l’orario è corto, le ore e le giornate sono lunghe,  sia che si lavori come una bestia da soma – i facchini – sia al contrario, come i commercianti  di tappeti che invece trasudano noia, tè dopo tè in fondo alla loro bottega, dato che il cuore del bazar di Teheran, la sua essenza, la sua ragion d’essere, è il tappeto, il cui commercio occupa tre quartieri e in totale un buon quinto della sua superficie. Quanti tappeti ci sono nel bazar di Teheran?

Milioni…

In questa massa quanti punti annodati uno ad uno, quanti fiori disegnati pazientemente?

Meglio non pensarci altrimenti  cominciamo a vivere la dimensione dell’infinito…

Impilati nelle corti, nelle cantine, ammucchiati in botteghe di tutte le misure, grandi e piccoli, antichi e moderni, intrecciati sotto una tenda o in fabbrica, dormono sotto l’occhio vigile del loro proprietario seduto in fondo alla bottega, dietro una brutta scrivania di legno fuori moda, cellulare all’orecchio o a portata di mano e per di più sotto l’occhio del padre defunto di cui si nota il ritratto in bianco e nero sopra la sua testa.

Tappeto, proprietario e padre del proprietario attendono dunque il cliente ma ancor più l’acquisto all’ingrosso, trasmesso via telefono da Amburgo, da New-York o altrove, ovunque risieda forzatamente un fratello, un cugino, proprietario, anche lui, di una bottega…

Vogliamo il nostro ritratto sul tappeto?

Ebbene, è possibile; è sufficiente una fotografia e sarà tessuto grazie ad un programma computerizzato.

Vogliamo, sulla falsariga, la Cena di Leonardo, Napoleone al San Bernardo, Mosè sulla sua roccia, Ester e Mardocheo, tre cuccioli in un cesto?

Nessun problema.

Tutto ciò si può fare.

Abbiamo un tappeto che non ha più nulla del tappeto, che somiglia più ad uno straccio per pavimenti, povero brandello, pieno di buchi, smangiato dalle tarme, l’ombra di se stesso ?

In fondo ad un viale scuro, accovacciato in mezzo a mucchi di fili di lana, un restauratore che lavora giorno e notte ve lo trasformerà in poche settimane in un magnifico tappeto da collezione che diventerà oggetto di ammirazione dei vostri ospiti.

Nessuna fretta pervade questo mondo dato che la ricchezza consiste nello stock, il quale acquista valore nel tempo.

Infatti lo straniero si meraviglia dell’abbondanza degli stock accumulati, di qualsiasi ramo commerciale si tratti e in rapporto alle vendite.

Qui i saldi non esistono, neanche per la moda, e non esistono liquidazioni totali per chiusura temporanea o definitiva.

In caso di fallimento tutto viene ripreso, se possibile in seno alla stessa famiglia, e tutto può essere riciclato.

Si vive, nel quotidiano, con poco, accumulando banconota su banconota fino a poter reinvestire nello stesso ramo o altrove, segnatamente nel settore immobiliare dove ugualmente, anche lì, appartamenti e palazzi possono ‘dormire’ senza render nulla per degli anni: poco importa dato che, come i tappeti, anch’essi acquistano valore ad ogni battito del pendolo del tempo.

Anni fa, prima della riforma agraria si avevano i mezzi per comprare delle terre, un mercante di tappeti poteva ‘regnare’ su parecchi paesi, a volte su un intero cantone, finalmente c’era ricchezza e sul finire di una lunga vita passata in bottega, si poteva, si doveva, sostenere il peso economico di opere per la collettività: edificazione di moschee, abbellimento degli spazi pubblici, senza dimenticare il mantenimento di qualche mullah, dei loro studenti e il sostegno alle opere pie.

E poi infine ci si poteva permettere di costruire, per sé, una dimora patrizia dotata di quattro, cinque ma anche sei o sette corti interne per offrire un alloggio conveniente alla propria numerosa famiglia di tre generazioni indietro.

Questo stile di vita si nota in particolare nelle città grandi produttrici di tappeti del XIX° secolo e dell’inizio del XX°,  come ad esempio Kachan e Yazd, ma poi, a dire il vero, quasi ovunque.

Anche se modesto, il mercante di tappeti si è vissuto (e si vive) come appartenente all’aristocrazia del commercio.

Mi ricordo di uno di loro che, avendo saputo che l’ambasciata, dalla quale sperava da tempo di acquistare un piccolo bene in provincia che era stato messo in vendita, l’aveva invece ceduto ad un miglior offerente: “vi rendete conto a chi l’avete venduto?

Ad un commerciante di granaglie…da me, nella mia città, sono disonorato…” e sul viso gli si poteva leggere una sofferenza reale.

Un modo di concepire la vita che ci rammenta l’India, tutto sommato non così lontana e da ogni punto di vista, e il suo sistema di caste.

Come in India, anche se si è cambiato lavoro, anche se si diventa uomini di intelletto, ingegneri o ministri, si rimane per tutta la vita un figlio di mercante di tappeti o di polli oppure un figlio di mullah o di militare.

Come in India i matrimoni sono combinati.

Come in India,  l’aveva ben chiarito Louis Dumont, la piramide sociale integra al suo interno tutti, ma sempre in base al principio gerarchico.

Ognuno ha il proprio posto, quello giusto, a condizione, beninteso, di attenersi al principio e non cercare di modificare in alcun modo la scala dei valori e delle classi.

Anche al bazar è così; ogni cosa regge l’altra e crea blocco, dal facchino al mercante milionario.

Le persone sono a un tempo concorrenti e solidali.

Concorrenti allo stesso livello ma certamente solidali in caso di aggressione alla collettività come può succedere, ad esempio, nei confronti degli agenti del fisco.

Solidali tra un livello e l’altro attraverso sistemi clientelari e di lealismo in conseguenza e comunque, a caro prezzo: il facchino infatti, può sì godere di credito presso un mercante,  ma ad un tasso usuraio.

E le transazioni, ad ogni livello, rimangono orali.

Nessun bisogno di timbri o di carta dato che ognuno è consapevole che uno sgarro alla parola data costituisce l’inizio dell’espulsione dal sistema, condannati così ad una sorta di morte civile.

Oltretutto diventa impossibile rubare foss’anche uno spillo.

Ho io stesso assistito ad una scena in cui un poveraccio si era impossessato impropriamente di un piccolo oggetto in mostra, ho udito le grida del mercante derubato, ho visto i suoi sodali lanciarsi in men che non si dica e tutti insieme all’inseguimento del ladro, acchiapparlo in pochi attimi e riempirlo di botte fino a lasciarlo a terra pesto e insanguinato.

Impossibile interporsi.

Come poi vociava uno dei protagonisti dell’episodio che si era consumato in meno di due minuti: “bisogna essere proprio stupidi per fare questo nel bazar…”.

Il Gran Bazar di Teheran  oramai esce dai suoi confini.

Ha superato da tanto tempo i quattro viali ad angolo retto che ne segnano ufficialmente il contorno, si è preso via via, qui una strada, là un viale, altrove ancora un terreno abbandonato dove si sono concentrati i venditori di pollame, di uccelli multicolori, di pulcini verdi o rosa dipinti a spruzzo e soprattutto di uccelli canterini che spesso vengono appesi, in gabbia, all’entrata della bottega.

Al di là delle sue conquiste più visibili, il Bazar si è insediato in tutta la città, formando di fatto un immenso arcipelago.

Che si tratti di quartieri di scarpe o di abiti per bambini o anche di mobili kitsch, le botteghe sono sempre incollate le une alle altre: possiamo perciò incontrare trenta negozi di scarpe da donna l’uno appresso all’altro e altrettanto sul marciapiede di fronte.

Man mano che si sale verso il nord della città, gli aspetti orientaleggianti del bazar svaniscono, lo stile generale si occidentalizza e si potrebbe pensare di essere in negozi di un centro commerciale europeo o  americano.

Ma la situazione di fondo rimane sempre la stessa; un fratello è situato in un negozio del nord dove fa bella mostra di sé, ben rasato e ben vestito, mentre l’altro è rimasto nelle viscere del Gran Bazar, custode della vecchia bottega.

E, in ogni momento, sono pronti a sostituirsi l’un l’altro.

Scià Abbas, il grande re safavide, aveva cercato di fare di Isfahan, della Persia e del mondo una immensa moschea.

Ma la reale natura dell’Iran è indubbiamente più vicina a quella di un gran bazar.

Il Bazar di Teheran ne è il cuore, certo,  ma l’anima del bazar è ovunque, in ogni quartiere,  in ogni paese.

Sonnecchia in ogni Iraniano o Iraniana, determina ogni comportamento, sale da ogni angolo dell’Iran attraverso il cinguettio degli uccellini canterini che rallegrano le giornate dei commercianti nella loro vita malinconica.

François Nicoullaud

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