Superare l’idea del Prodotto interno lordo come unico parametro dello sviluppo

Se vogliamo accettare l’idea che la crescita lineare non può più essere un obiettivo dobbiamo far si che anche l’insieme di tutti i beni e servizi prodotti da un paese (PIL) si adegui alle esigenze di un’economia circolare, quindi più sostenibile ambientalmente, socialmente, economicamente e civilmente a livello mondiale.

Perché il tema della sostenibilità è diventato centrale nelle analisi sul nostro futuro per svariate ragioni che vanno dai cambiamenti climatici, all’esaurimento delle risorse fisiche e naturali, al crescere della complessità dei problemi e al rapporto tra etica e norme.

Al quale si deve rispondere con l’individuazione di nuovi orizzonti valoriali ed ideali, in grado di coniugare gli stessi con forme di business, non solo tipici delle aziende “green”, ma anche per quelle più tradizionali.

Pertanto la quantificazione della crescita di un sistema economico non può più essere misurata unicamente con parametri tradizionali meramente quantitativi, conseguenza di un’ideologia fondata sulla sola accumulazione e anche se non dobbiamo cadere nella trappola della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti con la quale i padri costituenti avevano stabilito che “a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità”, non possiamo ignorare quanto incidano sull’economia anche indicatori qualitativi.

Infatti produrre in modo sostenibile significa individuare e poi misurare in modo nuovo processi e modelli di business che sostituiscono l’impiego massiccio di risorse naturali, non rinnovabili, con l’ingegno umano, la crescita dei saperi e la ricerca scientifica costante.

L’idea non è nuova e da vari anni e su differenti piani che vanno dall’Ocse (Better Life Index), ad un gruppo di economisti tra i quali H.Daly e J Cobb ((Genuine Progess Indicator), ai nostri Istat e Cnel (Benessere equo e sostenibile) si cercano compensativi e aggiuntivi indicatori di ricchezza sociale rispetto al semplice prodotto interno lordo, come misuratori dello sviluppo.

Questo perché nel conflitto tra capitale e lavoro, struttura e sovrastruttura,troppo spesso si tende ad ignorare il terzo fondamentale fattore: l’ambiente che quasi sempre viene sacrificato sull’altare della crescita solamente quantitativa e troppe volte non più, come nel recente passato, anche redistributiva.

Per questa ragione è indispensabile che si individuino altri indicidi crescita economica che tengano conto delle conseguenze ambientali e sociali e che sappiano anche fornire indicazioni sul progresso civile e culturale di un paese, coniugando etica ed affari nelle transazioni di lungo periodo.

Perché se è vero che le risorse materiali sono in esaurimento, il capitale intellettuale e sociale dato dall’incremento dei saperi, conseguenza della crescita della scolarità, è, invece, in costante crescita a livello mondiale e costituisce una grande opportunità di problem solving finalizzato all’innovazione orientata alla sostenibilità.

Se i dodici indicatori del Bes dell’Istat (salute,istruzione,lavoro e conciliazione dei tempi di vita,benessere economico,relazioni sociali,politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo,paesaggio e patrimonio culturale,ambiente,ricerca e innovazione,qualità dei servizi) rischiano di non avere successo per la loro complessità gestionale e per i tempi lunghi della loro rilevazione, forse la proposta compensativa  dell’Ufficio Studi di Confcommercio che mantiene il Pil come architrave dell’analisi macroeconomica, ma indica dei correttivi potrebbe avere maggior fortuna nel descrivere uno scenario complementare, almeno in questa prima fase di ricerca di possibili alternative.

I tre correttivi che l’Organizzazione propone sono: le emissioni di CO2, il numero dei decessi in incidenti stradali e sul posto di lavoro e la quantità di cittadini in povertà assoluta.

Il presupposto è che questi tre fattori rappresentano per la collettività un costo economico e pertanto la loro incidenza sul PIL, deve essere calcolata e detratta dall’importo complessivo, mentre la loro riduzione evidenzia il progresso economico e sociale di un paese.

Il Centro Studi ha simulato l’ applicazione del metodo alle sei maggiori economia Ue (Germania,Francia,Gran Bretagna,Italia,Spagna e Olanda) e ha poi ricalcolato la crescita cumulata nel decennio 2006/2015  e, successivamente,  su base annua la variazione 2014/2015.

Nel decennio tutte le economie ne escono irrobustite e i miglioramenti sono stati significativi; anche il nostro Paese ha certamente imboccato il cammino della ripresa, ma a conferma di quanto già sappiamo ad un ritmo inferiore a quello degli altri, forse perché penalizzato da valori di minor sostenibilità. 

L’Italia ha riacceso il motore, ma con il tradizionale sistema economico e la crescita ha comportato un ritorno all’incremento delle emissioni di CO2 (al contrario di Germania,Francia e Gran Bretagna che comunque le hanno diminuite); un aumento dei morti sulle strade e sul lavoro (in misura doppia rispetto alle altre cinque economie considerate) e a pagare il conto sono state le fasce meno abbienti della popolazione, con i poveri assoluti  saliti in un anno di cinquecentomila unità, dai 4,1 milioni del 2014, ai 4,6 del 2015.

Tutti numeri che il vecchio modo di calcolare il PIL occultava, così come non evidenzia il costo complessivo di questi elementi aggiuntivi che calcolati complessivamente,  nel solo 2015, hanno pesato per circa 40 miliardi di euro (2,4% del PIL) che, teoricamente, avrebbero dovuto essere sottratti al PIL stesso, riducendone ulteriormente il valore e tutto ciò può fornire indicazioni su una “percezione” non soddisfacente delle crescita stessa.

Luigi Pastore