Sul filo della calza da donna

Sono convinto che ogni uomo potrebbe agevolmente ripercorrere – sul filo della calza da donna – tappe ed emozioni della sua vita amorosa.

Sotto tale aspetto, la mia generazione ha avuto un avvio stentato.

Quando avevo quindici anni le mie coetanee non si potevano definire delle ‘lolite’.

Le ricordo in divisa da ‘piccola italiana’: soprattutto una gonna troppo corta da cui spuntavano pendagli elastici che reggevano (appena sopra al ginocchio) calze bianche orrendamente grinzose.

(Avevo l’età dei primi brutti pensieri e il parroco mi spiegava che in questi casi bisognava deviare la mente su qualcosa di scostante. Così mi concentravo sulle calze flosce delle ‘piccole italiane’, le cui gambe  sembravano protesi con relativi tiranti).

La prima extrasistole me la provocò una contadina florida (“tonda quel tanto che mi dà tormento”, aveva scritto Ungaretti) che andava a messa in bicicletta.

Le donne di allora non pedalavano come quelle di oggi, cosce al vento: a ogni pedalata si tiravan giù la sottana, oppure proteggevano le loro preziose penombre pedalando strette, sfregando un ginocchio contro l’altro.

Ma nonostante questi pii contorcimenti, la donna non riuscì a contrastare un refolo di vento: vidi la calza (di rayon) dorata fin dove finiva.

E poi la coscia bianca, bianchissima, sconvolgente, attraversata dalla giarrettiera nera.

La mia prima idea di peccato coincide con quell’immagine.

A parte questa apparizione conturbante, i miei ricordi delle calze femminili durante la guerra sono più pacati.

Per esempio quello delle ragazze che recuperavano le sottocalze della nonna (rosa carne, raccapriccianti) e le mettevano dentro la pentola.

In quell’epoca le pentole erano vuote di roba da mangiare, ma sempre piene di vecchi indumenti che bollivano in brodi di ‘super iride’, rinnovandosi almeno nel colore.

Erano in voga l’amaranto e il verde petrolio, da abbinare ai guanti e ai berretti di lana.

Abbigliamenti asessuati, di tutto riposo.

Qualche brivido lo lego alla comparsa delle prime calze a rete, fatte in casa con cotone chiaro e poi immerse in un infuso di tè per acquistarne un riflesso d’ambra.

Ma più che calze a rete, erano robuste reti da triglie adattate a calze.

E, a smorzare qualsiasi impulso erotico, bastava vedere come riducevano le gambe: violacee, orrendamente scolpite da ponfi a losanga.

Le femmine più provocanti di quel periodo erano quelle che sbirciavo sui muri, nei cartelloni di Boccasile: le tette supercompresse dalle camiciole e soprattutto quelle gambe irresistibili, velate dalle calze con la riga, sui tacchi altissimi.

Alle calze smagliate è rimasta legata un’immagine molto sexy: una femmina che cammina, si arresta un attimo come librata in un arabesque, il volto rovesciato indietro per individuare il filo rotto, il polpastrello umettato fra le labbra che va a tamponare il fallo.

Verso la fine degli assi Sessanta si produsse un evento nefasto: la comparsa dello stivale da donna.

Le belle gambe andarono soggette ad eclissi perché, in ossequio ad una moda perversa, se gli stivali erano bassi, le sottane si allungavano; se la sottana si accorciava, incredibili stivali da moschettiere salivano fino all’orlo della minigonna.

Fu una lunga, convulsa stagione in cui si avvicendavano stivali da cosacco, da commissario della gestapo, da agente della polstrada.

Stivali flosci, stivali rigidi, stivali strettissimi da invalido legati con i lacci.

Se per caso ci si trovava in una situazione intima che precludeva a qualcosa di più, andava tutto all’aria perché lei si sedeva e diceva: mi aiuti a togliermi gli stivali?

E bisognava puntellarsi con i piedi e tirare, come l’attendente di John Wayne nel  ‘Settimo cavalleggeri’.

Fu un avvenimento di portata storica: donne che si erano sempre abbigliate per piacere agli uomini, cominciarono a conciarsi come piaceva a loro.

L’evento più  traumatico per l’immaginario maschile fu la nascita del collant, bollato come ‘guaina da sommozzatore’.

In una rubrica di lettere lessi: “non sono un deviato da film di Bunuel, ma quando mi trovo di fronte una donna in collant, magari col cavallo basso, vorrei sparire”.

(E’commovente che queste confessioni apparissero pudicamente celate dietro sigle o pseudonimi. Era inimmaginabile che un giorno le coppie si sarebbero messe in piazza, in prima serata, raccontando come, dove e quante volte al mese).

Le donne, però, sfidarono l’ostracismo degli uomini: fra l’altro il collant evitava che in certe stagioni dieci centimetri di coscia scendessero a temperature findus.

Oggi tout se tient e coesistono calze velate, a rete, scaldamuscoli fucsia, stivali, sandali d’argento, abominevoli gambaletti sotto il ginocchio, autoreggenti, calzini corti risucchiati sotto il calcagno nelle scarpe da tennis, collant leopardati o anticellulite..

Recentemente, foto e titoli di  quotidiani e rotocalchi hanno dato vita a un revival  diffondendo un profumo di reggicalze e giarrettiere: l’erotismo del tempo che fu,  spazzato via dalla  pornografia.

Lo riconosce uno che se ne intende, Tinto Brass: “C’era un linguaggio allusivo che è diventato esplicito, automatico, con effetti devastanti: questi nuovi film non procurano più emozioni ”.

E incalza Laura Antonelli: “Il nudo  sparato in primo piano non è minimamente paragonabile alla provocazione di un  reggicalze sbirciato da sotto la scala a pioli”.

Ora siamo alla sguaiataggine del linguaggio e delle immagini quotidianamente propinate dal ‘Grande fratello’ dove i bip cancellano le parole, ma non gli atteggiamenti.

E non si tratta di scene ‘volgari’ perché la volgarità ha una sua  squillante vitalità popolaresca.

Ma di situazioni  sordidamente  scurrili e  pecorecce.

E anche  stomachevoli: “Vieni a sentire che puzza hai lasciato in bagno” .

E tanti ritengono che questa fraseologia gastro-genitale, e l’overdose di tette anticarro e di super culi (in ogni versione, dal reality  al telequiz e allo spot) finiscano per anestetizzare  il superstite eros nei giovani maschi del terzo millennio.

Luca Goldoni