Gli Stati Uniti e la Cina. Leggere Henry Kissinger per comprendere il “Paese di Mezzo”

Accade ciclicamente.

Nonostante i migliori propositi muovano ogni nuovo Presidente degli Stati Uniti nell’approcciarsi alla Repubblica Popolare Cinese, puntualmente, a un certo momento di ogni amministrazione americana, si verifica un evento, o una serie di eventi, che raffreddano le relazioni bilaterali.

Gli ultimi due episodi, a livello cronologico, si sono verificati di recente, quando Donald Trump, dapprima, ha deciso di instaurare dazi commerciali nei confronti di tutta una serie di prodotti d’importazione, provvedimento, questo, che Pechino ha interpretato come inteso a danneggiare le imprese cinesi che esportano negli Stati Uniti beni di consumo di massa (soprattutto nel mercato dell’elettronica e degli elettrodomestici); in un secondo momento, poi, quando il Wall Street Journal, citando fonti dell’intelligence Usa, ha accusato Wendi Deng, ex moglie del miliardario nonché magnate dei media Rupert Murdoch, di essere una spia cinese sotto copertura.

La tensione fra le due superpotenze è tornata a crescere, dopo che lo scambio di visite del 2017 fra i due capi di Stato – nel caso di Xi Jinping, Presidente della Repubblica Popolare, con tanto di visita nella tenuta privata di Donald Trump in quel di Mar A Lago, in Florida – aveva fatto credere (o, forse, illudere) che una relazione fattivamente positiva, sulla scorta, magari, di relazioni personali amichevoli fra la coppia di leader, fosse realmente possibile.

I nuovi episodi, infatti, hanno avuto, come conseguenza diretta, un nuovo acuirsi della retorica nazionalista cinese “han” – dal nome del gruppo etnico largamente maggioritario nel gigante asiatico – che, ad alcuni osservatori internazionali, ha ricordato il linguaggio utilizzato dalla propaganda maoista negli anni di maggiori tensioni con gli Stati Uniti.

Da qui, il blocco compatto dei media Usa ha ricominciato a parlare, in televisione e sui giornali, di “pericolo giallo”, e di come la Cina, da anni, ormai, studi in funzione di togliere lo scettro di prima superpotenza mondiale agli Stati Uniti.

L’impressione che si ricava, osservando il modo con cui l’amministrazione Trump – ma non solo – interagisce con Pechino, è quella di un approccio alla Cina, alla sua vastità e alla sua complessità, in modo confusionario, impreparato e improvvisato.

Eppure “basterebbe”, quanto meno come guida ai principi fondamentali della diplomazia internazionale e, nello specifico, ai rapporti con la Repubblica Popolare, che la Presidenza e i funzionari del Dipartimento di Stato attingessero a piene mani da un vero e proprio capolavoro della saggistica contemporanea, “On China”, scritto da Henry Kissinger nell’anno 2011.

L’opera dell’ex Segretario di Stato americano, infatti, per quanto abbastanza risalente nel tempo, letta ancora oggi risulta assai valida e foriera di preziosi consigli per cercare di comprendere al meglio le dinamiche delle relazioni Usa-Cina.

Kissinger, per quanto duramente criticato, nel corso dei decenni, da certi ambienti “intellettuali” per alcune passate dichiarazioni e per la messa in atto di politiche, a volte, ai limiti del mefistofelico, è senza ombra di dubbio il più grande Segretario di Stato che gli Stati Uniti abbiano avuto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, cattedratico ad Harvard e autore di una serie di libri sulla geopolitica che hanno fatto scuola.

Se studiato con attenzione, “On China” fornirebbe, a tutto l’apparato amministrativo americano, lezioni e spunti indispensabili per gestire i rapporti sino-statunitensi.

Corre l’anno 1971 quando Henry Kissinger, all’epoca consigliere speciale per la sicurezza nazionale statunitense, visita per la prima volta la Cina dopo due decenni di continue tensioni con l’America e di inesistenti relazioni diplomatiche fra i due Paesi.

Richard Nixon, desideroso di isolare l’Unione Sovietica e di creare frizioni nel blocco comunista del mondo, affida a Kissinger una missione apparentemente impossibile: negoziare con la Repubblica Popolare uno storico accordo, in grado di dare una scossa decisiva agli equilibri della Guerra Fredda, da un lato, e di gettare le basi per un’alleanza fra la superpotenza del mondo “libero” e la più importante nazione dell’Asia-Pacifico, dall’altro.

Sin da quel giorno, Henry Kissinger, assai stimato da tutto l’apparato politico della Repubblica Popolare, ha contribuito a mantenere stabili le relazioni sino-americane, in particolar modo in seguito al c.d. “incidente del 4 giugno” 1989, quando, in seguito alla repressione di Piazza Tienanmen, un dissidente cinese, Fang Lizhi, chiese e ottenne asilo politico presso l’ambasciata statunitense di Pechino. Quell’incidente, potenzialmente in grado di mandare in fumo quasi vent’anni di fitto lavoro diplomatico, fu gestito e risolto da Kissinger nell’unico modo possibile quando si tratta di negoziare in una situazione di tensione con la Cina, ovvero consentendo al suo apparato politico di avere “salva la faccia”.

Il modo diretto, prepotente, agli occhi dei cinesi, con cui le autorità diplomatiche statunitensi avevano riconosciuto asilo politico a Fang Lizhi (sulla scorta di una visione universalistica delle libertà e dei diritti individuali che l’America, ancora oggi, persegue) aveva messo il governo di Pechino nella scomoda posizione di sentirsi ostaggio, in casa propria, di un proprio cittadino e di una potenza straniera.

Henry Kissinger, ben conoscendo la psicologia storica del popolo cinese, riuscì a risolvere l’impasse diplomatico, proponendo alle autorità della Repubblica Popolare un accordo che prevedeva il lasciapassare verso gli Stati Uniti per il dissidente Fang, in cambio del silenzio di quest’ultimo, che si sarebbe impegnato, pena il rimpatrio, a non rilasciare dichiarazioni sul governo di Pechino ai media americani.

Questa proposta, che consentiva alle autorità cinesi di “salvare la faccia”, fu accettata, e Fang Lizhi ebbe il permesso di rifugiarsi negli Stati Uniti.

Eppure, ancora oggi, dopo molti anni, tante, troppe volte il governo statunitense dimentica questa, e numerose altre, preziose lezioni che la gestione Kissinger avrebbe dovuto lasciare come lascito ai suoi successori nel rapportarsi con Pechino.

In “On China”, l’ex Segretario di Stato suggerisce l’impianto per le future relazioni sino-statunitensi, muovendo i passi da un’analisi magistrale della storia diplomatica cinese, e partendo dal 1794, quando l’allora Impero Qing rifiutò il tentativo dell’emissario britannico, Lord George Macartney, di stabilire formali relazioni diplomatiche.

All’epoca, la Gran Bretagna – come, d’altronde, gli Stati Uniti al giorno d’oggi – era una “potenza missionaria”, dedita a espandere il verbo del Cristianesimo e del libero commercio ai quattro angoli del globo.

Ma, laddove la visione che la Gran Bretagna ha di sé è radicalmente mutata, nel corso degli ultimi tre secoli, la Cina, nel 1794, considerava se stessa nello stesso modo con cui si considera tuttora: il Paese di Mezzo, il glorioso sole che splende sull’Oriente, al quale gli altri Stati, confinanti e tributari, devono rivolgersi per ottenere civiltà e illuminazione culturale.

Nel corso della sua trattazione, Kissinger fornisce un’ulteriore, essenziale chiave di lettura per comprendere le differenze psicologiche fra la concezione strategica occidentale e quella cinese, e lo fa parlando dettagliatamente di due giochi da tavolo. Laddove gli occidentali, infatti, hanno inventato gli scacchi, gioco nel quale la metaforica potenza bellica è posizionata direttamente sulla tavola da gioco, e nel quale è essenziale colpire direttamente il nemico, con logica e pianificazione, i cinesi hanno inventato il “go”, gioco nel quale, al contrario, la vittoria si ottiene tramite l’accerchiamento del proprio avversario.

Per comprendere quanto diverso sia l’approccio ai due giochi strategici – e, quindi, alla concezione della strategia e della diplomazia in Occidente e in Cina – Henry Kissinger racconta della sua pima visita nella Repubblica Popolare e dei preparativi per incontrare Zhou Enlai, all’epoca Primo Ministro. L’ex Segretario di Stato, infatti, rammenta di essere arrivato in Cina con un programma ben definito e con una serie di argomenti che avrebbe voluto affrontare immediatamente, ma che Zhou Enlai preferì, innanzitutto, fargli visitare la Città Proibita ed estendere la permanenza dell’importante ospite nel proprio Paese.

Laddove Kissinger, insomma, sperava di portare a termine, in modo rapido e diretto, la propria missione diplomatica, Zhou Enlai, al contrario, lo circuì con lusinghe e attenzioni personali, in modo da abbassarne le difese psicologiche.

Proprio come negli scacchi e nel “go”.

Nel corso della sua esposizione, Henry Kissinger rammenta con moderazione, agli attuali e ai futuri leader della Repubblica Popolare, di tenere bene a mente e di fare tesoro degli indiretti insegnamenti che possono trarsi dalle disastrose politiche messe in atto da Mao Zedong, con le quali il “Grande Timoniere” riuscì, dapprima, a circondare il proprio Paese di nemici – India e Stati Uniti su tutti – e, successivamente, ad alienarsi l’alleanza con l’Unione Sovietica. Per non parlare di come egli riuscì a debilitare, in modo quasi irreversibile, la capacità economica e industriale cinese.

Ma, proprio nel muovere le sue critiche a Mao, nel bene e nel male considerato, in patria, come il fondatore della Cina contemporanea, e onde evitare di urtare la suscettibilità del governo cinese su questo tema, Kissinger dimostra di aver appreso molto bene la lezione che, tanti anni prima, gli fu impartita da Zhou Enlai.

Nel censurare il lascito storico del “Grande Timoniere”, infatti, l’ex Segretario di Stato spende, dapprima, svariate pagine nel lodarne il coraggio, la risolutezza e la ferrea volontà, per poi ritorcergli contro i suoi stessi, a volte assurdi, ragionamenti.

Nel 1958, Kissinger ricorda, Mao ordinò il bombardamento delle Isole di Quemoy e di Matsu, amministrate da Taiwan, la cui sovranità, a sua volta, è rivendicata da Pechino. Con questa mossa, si apprende dalle pagine di “On China”, Mao intendeva tentare la sorte e provocare deliberatamente gli Stati Uniti, obbligati da un trattato bilaterale a soccorrere Taiwan in caso di aggressione, allo scopo di testare l’effettiva risolutezza di Washington nell’accorrere in difesa del Paese alleato.

Un azzardo assai rischioso di per sé, in politica estera. Un azzardo in grado di scatenare una guerra nucleare, nel clima politico internazionale della Guerra Fredda.

Kissinger, tanto acuto quanto prudente nel muovere le sue critiche a Mao Zedong, è assai più esplicito nel tessere le lodi del suo successore, Deng Xiaoping.

In completa contrapposizione con le politiche del “Grande Timoniere”, tante volte accecato dal furore ideologico e rivoluzionario, Deng decise di scegliere la via del pragmatismo, per risollevare le sorti di un Paese che, alla morte di Mao, in larga parte pativa la fame e un’arretratezza strutturale da Terzo Mondo.

Fu proprio l’obiettivo di mettere il proprio Paese nelle migliori condizioni per avviare un processo di modernizzazione – che, peraltro, si rivelò come uno dei più arditi e riusciti “esperimenti” di “nation re-building” della storia dell’umanità – a indurre Deng Xiaoping a compiere numerosi viaggi in Occidente, dal quale egli intendeva importare tecnologia, modello economico e know-how industriale.

Tra le righe e le sfumature, il messaggio di fondo è molto chiaro: secondo Kissinger, la delicata situazione geo-politica cinese, sia esterna (si vedano i turbolenti rapporti con una parte dell’Asia e con gli Stati Uniti), sia interna (le questioni, mai del tutto risolte, di numerose minoranze etniche che anelano, se non all’indipendenza, quanto meno a una maggiore autonomia da Pechino), rappresenta uno dei lasciti del violento idealismo maoista; laddove, al contrario, la capacità di stringere importanti alleanze strategiche, che vadano al di là dell’ideologia, e di compiere un autentico miracolo economico, devono la propria riuscita al pragmatismo di Deng Xiaoping.

Lettolo in chiave contemporanea, questo può essere interpretato come un forte messaggio simbolico che Henry Kissinger manda all’attuale leadership cinese, in un momento storico in cui, sotto la guida dell’attuale Presidente  Xi Jinping, l’autoritarismo e il culto della personalità stanno tornando ad assumere quelle sembianze maoiste che, oramai, parevano sepolte dalla Storia.

L’ex Segretario di Stato conclude il proprio excursus storico-diplomatico con un consiglio diretto alle future amministrazioni statunitensi che si troveranno, inevitabilmente e sempre più, a dover trattare con la Repubblica Popolare, ovvero di non dare eccessivo peso alla retorica nazionalista e anti-americana che, ciclicamente, compare sui media cinesi.

Kissinger, a tal proposito, consiglia invece l’establishmentstatunitense di tenere sempre a mente, nel negoziare con Pechino, quella che è la prima e più importante qualità che, nel corso della sua storia plurimillenaria, ha sempre contraddistinto il popolo del “paese di mezzo” e, di riflesso, la sua politica: il pragmatismo.

Henry Kissinger, infatti, rammentando i preziosi insegnamenti dell’amico e collega Zhou Enlai, che gli suggeriva di non badare alla retorica infuocata di Mao contro gli Stati Uniti, sostiene che i leader del Partito Comunista Cinese, ben lungi dall’essere accecati dal fervore ideologico-rivoluzionario, sono, in realtà, funzionari che badano solo ed esclusivamente alla realpolitik e agli interessi strategici del proprio Paese.

Questo, in modo non difforme da quanto, per millenni, i c.d. “mandarini” di corte hanno messo in pratica sotto il dominio degli imperatori che si sono assisi sul trono del fu “celeste impero”.

Nel corso della sua cinquantennale carriera, Henry Kissinger è stato consultato, in decine di occasioni, sia da Presidenti degli Stati Uniti in carica che dalla controparte cinese, e, nello scrivere “On China”, la sua velata speranza era quella che, in futuro, le nuove amministrazioni a Washington potessero trarre consiglio e ispirazione dalla sua opera.

Alla luce dei recenti fatti e, più in generale, della retorica presidenziale e militare statunitense sulla Cina, è un vero peccato constatare che, dalle parti di 1600 Pennsylvania Avenue, la pensino diversamente.

                                                                            Edoardo Quiriconi