Sognando un Giappone senza nucleare

3 maggio 2016

 

Quando alle 14.46 di venerdì 11 marzo 2011 la terra in Giappone ha iniziato a tremare, tutti gli abitanti della parte nord-orientale dell’Isola di Honshu (una delle quattro isole maggiori che compongono l’arcipelago nipponico, dove si trovano la capitale di “oggi”, Tokyo, e quella di “ieri”, Kyoto) hanno temuto, in un primo momento, che stesse per verificarsi il tanto temuto “big one”, il devastante terremoto che i sismologi giapponesi danno per certo entro i prossimi trent’anni e che dovrebbe colpire la città di Tokyo e la circostante piana del Kanto (1).

Chiunque abbia vissuto per un periodo medio-lungo in Giappone sa bene che le scosse di terremoto sono quasi all’ordine del giorno.

I giapponesi lo sanno da millenni e, normalmente, fanno “spallucce”, continuando nelle loro attività come se nulla fosse: hanno grande fiducia nei progressi fatti dall’edilizia nazionale in materia di sicurezza antisismica e fanno affidamento sulla capacità sia dei privati cittadini che delle autorità di far fronte a eventuali cataclismi naturali (2).

Quel giorno, però, la violenza della prima, apparentemente interminabile, scossa – e delle altre migliaia di assestamento che sarebbero seguite nei giorni successivi – fece capire subito a tutti che si stava verificando un qualcosa che andava al di là della “ordinaria amministrazione”.

Tokyo, però, per quanto scossa e strattonata dai movimenti tellurici, non subiva i danni che sarebbe stato normale aspettarsi se davvero si fosse trattato del “big one”: le gru delle imprese edili, i grandi palazzi (sedi delle big companies nazionali), i grattacieli e le torri delle comunicazioni oscillavano pericolosamente, ma nessun crollo, niente di niente.

Gli abitanti della megalopoli, già pochi minuti dopo la prima scossa, sospettavano che l’epicentro del sisma dovesse trovarsi altrove, essendo stati i danni tanto contenuti.

La conferma arrivava poco dopo le 15.00: al largo delle coste del Tohoku (regione situata circa 330 km a nord di Tokyo) un terremoto di magnitudo 9.0 scuoteva la terra e, soprattutto, generava una serie di tsunami alti fino a 40 metri che, nelle ore immediatamente successive, avrebbero inghiottito e sommerso circa 400 km di costa.

La regione del Tohoku, una delle più povere e, al contempo, più belle paesaggisticamente di tutto il Giappone, con i suoi campi coltivati, il verde acceso delle risaie a terrazzo e le sue casette simil coloniche, veniva travolto e sfigurato per sempre dalla violenza del mare che, spietato, si riversava sulla terraferma portandosi via tutto ciò che trovava sulla sua strada.

Nonostante il terremoto dell’11 marzo 2011 sia stato il più potente mai registrato in Giappone – il settimo in assoluto nel mondo da quando vengono effettuate le rilevazioni –, la grandissima maggioranza delle 15.703 vittime a oggi accertate hanno perso la vita soprattutto a causa degli tsunami scatenatisi a seguito del sisma.

I danni a persone e cose furono incalcolabili, ma il popolo nipponico, per indole culturale e filosofica, vanta una forte resilienza al cospetto dei disastri naturali ai quali è abituato da millenni.

La visione della vita dei giapponesi – un mix di fatalismo e “romanticismo” sui generis che deriva loro dalle peculiarità del culto autoctono dello Shinto, e per questo innamorati della fioritura dei ciliegi (sakura) in primavera, simbolo assoluto della caducità e dell’effimeratezza della vita – li porta a pronunciare, di fronte all’ineluttabile, l’espressione “shikata ga nai”, che in italiano potremmo tradurre con un “non c’è niente da fare; non si può fare niente”.

E certamente un terremoto e un maremoto di quelle proporzioni rappresentano un fenomeno naturale di fronte al quale l’uomo può fare ben poco e, proprio per questo, pur nel dolore e nella sofferenza, il giapponese medio lo accetta, lo sopporta.

Quando, però, alla forza inarrestabile della natura si aggiungono la stupidità, l’ingordigia e l’arroganza dell’uomo, ecco che anche un popolo tanto fiero e capace di risollevarsi dalle difficoltà, qual è quello giapponese, si trova spiazzato e impossibilitato a far andare gli eventi nel modo abituale, ovvero con efficienza e razionalità.

Quel venerdì 11 marzo 2011 è successo proprio questo: un errore umano – di pianificazione, prima ancora che “tecnico” – ha compromesso, per i decenni a venire, la sicurezza di vita in un’area di circa 20 chilometri quadrati dalla ormai tristemente famosa centrale nucleare di Fukushima Dai-Ichi.

Come tutto il mondo ormai sa, la centrale atomica – che prende il nome dalla città in cui fu costruita fra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso –, affacciata sull’Oceano Pacifico, è stata investita da uno tsunami di 14 metri d’altezza che, sovrastando e distruggendo la barriera anti flussi costruitale intorno al perimetro, ha inondato d’acqua i locali tecnici, lasciando l’intero complesso senza corrente elettrica.

La drammatica fatalità ha voluto che, a essere sommerso dall’acqua, fosse anche il generatore diesel d’emergenza, destinato a rifornire Fukushima Dai-Ichi di energia nel caso in cui l’impianto elettrico principale si fosse trovato disattivato per un qualunque motivo.

Senza corrente elettrica, e con il sistema idrico della centrale non funzionante, divenne impossibile raffreddare i reattori, determinando l’innesco di quel processo di fusione dei noccioli che, con le prime esplosioni d’idrogeno del 12 marzo, avrebbero tenuto il Giappone e il mondo intero con il fiato sospeso negli anni seguenti (3).

Il rapporto del Giappone con l’energia nucleare è storicamente beffardo: unico Paese nella storia ad aver subìto ben due bombardamenti atomici sulle città di Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945 (i quali, oltre ad aver provocato centinaia di migliaia di vittime nelle due esplosioni, hanno lasciato in “eredità” una contaminazione ambientale durata decenni nonché il drammatico problema dei c.d. “hibakusha”, i sopravvissuti alle deflagrazioni che hanno a lungo subìto, oltre ai patimenti fisici permanenti, l’ostracismo sociale), si è visto imporre, con una sottile e penetrante campagna propagandistica condotta dalle forze d’occupazione americane – con il benestare della classe dirigente nipponica emersa nel dopoguerra –, la costruzione, sul proprio territorio, di numerose centrali nucleari.

Il Giappone, uscito devastato dalla Seconda Guerra Mondiale, rappresentava una sorta di nuova “terra promessa” per costruttori e affaristi statunitensi di ogni sorta, giacché quasi tutte le strutture, sia pubbliche che private, dovevano essere ricostruite da zero.

Ovviamente nel “pacchetto” era compresa la necessità di ricostituire la rete elettrica nazionale e la General Electric, che già a partire dagli anni ’50 aveva iniziato a investire pesantemente sul nucleare a uso civile, non si lasciò sfuggire l’occasione per vendere la propria tecnologia e i propri reattori alle utilities nipponiche operanti nel campo energetico.

Molti storici sostengono, d’altronde, che il Giappone del secondo dopoguerra sia un Paese a sovranità limitata, la cui politica economica ed estera viene “suggerita” da Washington: dopo averlo sconfitto militarmente, gli americani volevano in qualche modo “rientrare” dagli smisurati costi sostenuti per vincere la Guerra del Pacifico e crearsi una comoda base strategica alle porte dell’Estremo Oriente.

La politica energetica del Sol Levante degli ultimi settant’anni s’inserisce chiaramente in questa chiave interpretativa.

Dopo aver subìto i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki, la popolazione civile giapponese era fortemente – e comprensibilmente – contraria all’introduzione dell’energia nucleare sul suolo patrio.

Conscia di questa opposizione popolare, la nuova classe dirigente nipponica (costituita, in larga misura, da ex criminali di guerra, “riabilitati” dagli americani dopo il Processo di Tokyo in cambio d’informazioni “sensibili”) fece iniziare una campagna sui media nazionali avente ad oggetto il fatto che, essendo il Giappone povero di risorse naturali, la costruzione di centrali nucleari avrebbe garantito al Paese l’indipendenza energetica a lungo termine.

Sulla base di queste argomentazioni economico-strategiche, prese corpo una massiccia campagna d’informazione – o di disinformazione – intesa a sottolineare l’assoluta sicurezza dei reattori made in Usa e a rendere l’atomo meno inviso all’opinione pubblica.

E a niente valsero le proteste di massa quando, l’1 marzo del 1954, un peschereccio giapponese, il Daigo Fukuryu Maru, venne investito dal vento radioattivo al largo dell’atollo di Bikini, dove gli Stati Uniti stavano conducendo una serie di test atomici attraverso la detonazione controllata di ordigni.

La volontà popolare, in Giappone spesso ignorata dai governanti, veniva calpestata ancora una volta.

La scelta di adottare l’energia nucleare, di per sé impopolare e pericolosa, è stata accompagnata da un ulteriore, gravissimo, errore strategico: la maggior parte delle centrali, infatti, sono state costruite sul versante orientale del Paese (lungo la costa dell’Oceano Pacifico, per intenderci), di gran lunga il più sismico di tutto l’arcipelago, per il timore che, se gli impianti fossero stati edificati sulla costa occidentale, sarebbero stati potenzialmente alla portata dei missili balistici nordcoreani.

Si è deciso, in sostanza, di dare maggior “peso” a un pericolo remoto e improbabile – il lancio di testate da parte della Corea del Nord sulle centrali nucleari giapponesi – che non a un pericolo ciclico, imprevedibile, ma certo, ovvero i terremoti nell’Oceano Pacifico.

Nel corso dei decenni nel Paese del Sol Levante sono state costruite 18 centrali nucleari disseminate in tutto l’arcipelago, per un totale di 55 reattori operativi.

Molte di queste, dopo il disastro di Fukushima Dai-Ichi, si trovano in condizione di shutdown – ovvero disattivate – per via dei protocolli di sicurezza che sono stati resi molto più severi.

Questo fatto, tuttavia, non sposta la questione del problema, ovvero che l’energia nucleare è pericolosa e che, alle sue spalle, si muove una potente lobby che ha, quale primario interesse, il profitto economico, piuttosto che la sicurezza degli impianti (4).

Il vecchio slogan del c.d. “Genpatsu Mura” (il “villaggio nucleare”, com’è ribattezzata in Giappone la lobby dell’atomo), ovvero “sicuro, economico e affidabile” suona oggi come uno scherzo di cattivo gusto.

Anche per gli esperti risulta a tutt’oggi difficile fornire una valutazione economica complessiva circa le conseguenze dei meltdown dei reattori di Fukushima, così come è difficile quantificare i crescenti costi per estinguere i debiti della oramai nazionalizzata TEPCO (Tokyo Electric Power Company, gestore dell’impianto in avaria).

Alcune stime parlano di più di 100 miliardi di dollari.

Nel Tohoku vi sono ancora più di 60.000 “rifugiati dell’atomo” che hanno dovuto abbandonare le proprie case per colpa della catastrofe nucleare, e molti di costoro, nonostante le rassicurazioni governative, non potranno mai più mettere piede sulle loro terre e sui loro campi coltivati.

Il che, in una regione come il Tohoku, che fonda la propria economia e la propria sussistenza sull’agricoltura e sull’allevamento, rende il tutto molto più crudele e drammatico.

Gli agricoltori e i pescatori locali faticano più del dovuto per risalire la china e riconquistare la fiducia dei consumatori (nei supermercati delle grandi città del sud del Paese la clientela non si fida più ad acquistare i prodotti e il pescato provenienti dal Tohoku), e, allo stesso tempo, il turismo della regione è stato duramente colpito e deve far fronte a difficili prospettive.

Nel linguaggio globale, Fukushima è ormai sinonimo di disastro nucleare, esattamente alla stessa maniera di Chernobyl da trent’anni a questa parte.

Siamo di fronte, da ormai cinque anni, a un evento che sta macchiando indelebilmente il “brand Japan” – insieme ad altri recenti scandali di varia natura, su tutti quello Toshiba sui bilanci “truccati” di appena un anno fa e quello, recentissimo, che coinvolge Mitsubishi Motors –, i cui effetti negativi si protrarranno a lungo, nonostante le rassicurazioni del Premier Abe Shinzo che la situazione alla centrale è sotto controllo.

Purtroppo l’Abenomics (il pacchetto di riforme economico-monetarie varato nel 2012 dal Primo Ministro giapponese per rilanciare, per adesso senza gli esiti sperati, la stagnante economia nazionale) fa pesantemente affidamento sull’energia nucleare.

Nonostante la forte contrarietà dell’opinione pubblica, Abe vorrebbe riattivare i reattori al momento in shutdown al fine di ridurre le importazioni di combustibili fossili e, al tempo stesso, tranquillizzare i potenziali clienti all’estero circa le esportazioni di tecnologie e know how giapponesi in materia di energia nucleare: vi sono in ballo commesse miliardarie – soprattutto nei Paesi in via di sviluppo – e il Governo del Sol Levante non vuol perdere la propria “fetta di torta”.

In merito alla non convenienza di importare più petrolio e, conseguentemente, far pagare bollette elettriche più “care” ai contribuenti giapponesi, la retorica della lobby dell’atomo torna sempre alla poco convincente argomentazione che l’energia nucleare è una tecnologia a buon mercato.

Essa è, in effetti, relativamente conveniente, ma soltanto se si escludono dai calcoli tutti i costi indiretti che la sua produzione comporta.

Se, infatti, si considerano tutti i costi riguardanti le rigorose ispezioni di sicurezza, le riparazioni e la manutenzione (per inciso: molte compagnie elettriche giapponesi sono sospettate di aver risparmiato molto denaro su quest’ultimo aspetto falsificando i rapporti resi pubblici), nonché i costi per l’eliminazione e lo smaltimento delle scorie radioattive; un sempre più necessario, completo e continuo addestramento degli operatori, nonché le periodiche esercitazioni di sicurezza e lo smantellamento dei reattori più obsoleti, ci si rende conto che, tutto sommato, la scelta di puntare sull’atomo non è poi così conveniente.

In merito alla crisi tutt’ora in corso a Fukushima, i fautori del nucleare in Giappone portano avanti una politica quasi fideistica, convinti che, alla fine, qualcosa si risolverà: di certo c’è che, ad oggi, abbiamo un nocciolo radioattivo fuso che gli stessi scienziati non sanno dove possa essere finito (in grado di contaminare le falde acquifere circostanti) e dei periodici travasamenti di acqua contaminata nell’Oceano Pacifico.

Questa è la situazione “sotto controllo” a Fukushima Dai-Ichi.

Sono dunque le energie rinnovabili la risorsa che il Giappone può utilizzare per archiviare definitivamente il suo incubo nucleare?

I sostenitori dell’atomo argomentano che le rinnovabili non sono in grado di funzionare come fonte base di energia elettrica in grande quantità e che tanto l’energia solare, quanto quella eolica, sono costose e necessitano di grandi spazi liberi per i rispettivi impianti, il che le renderebbe alternative impraticabili.

Chiunque abbia avuto modo di viaggiare nelle sempre più disabitate campagne giapponesi si rende conto che lo spazio non è affatto un problema e che, al contrario, le iniziative e gli investimenti – soprattutto privati – sulle energie rinnovabili offrono alle declinanti comunità locali un’ancora di salvezza.

Al di là delle difese di parte avanzate dai membri di una lobby che, in Giappone, ha provocato svariati, piccoli disastri, dei quali Fukushima è solo il più noto e mediatico, sarebbe ora che il mondo intero si lasciasse alle spalle l’energia nucleare, pericoloso “miracolo” del Ventesimo Secolo, per fare spazio alle rinnovabili, “figlie” del Ventunesimo, le quali, se sfruttate a dovere, potranno portare a radicali miglioramenti nell’efficienza energetica nei decenni a venire.

Alcuni Paesi, come la Germania e l’Italia, hanno già avuto il coraggio di fare questo passo, e anche il Giappone, da qualche tempo, si sta muovendo a velocità strabiliante in tal senso.

L’innovazione, nel Ventunesimo Secolo, si sostanzia in un’opera come la grande piattaforma solare galleggiante situata nel mare di Kagoshima, la più grande del Paese. Altre strutture analoghe sono già in fase di realizzazione, anche per permettere al Giappone di sfruttare appieno il suo vasto potenziale eolico.

Il Sol Levante è leader mondiale nello sviluppo di tecnologie innovative ed è sacrosanto che le sfrutti appieno, come dimostrano i progetti delle smart cities di Kitakyushu e Yokohama.

A tal proposito, alcune tra le più importanti compagnie nipponiche, quali Hitachi, Mitsui, Mitsubishi, Panasonic e Toshiba stanno puntando forte sui progetti di smart cities sia in patria che all’estero, immaginando e progettando metropoli green in ogni angolo del globo.

Anche nell’ottica di rilancio dell’economia, siamo di fronte a un mercato potenzialmente enorme e il Giappone si trova nelle condizioni favorevoli per guidare questa auspicabile “rivoluzione verde”.

Per concludere, il Sol Levante si trova a un bivio decisivo: invece che continuare a sprecare denaro e risorse col nucleare (in un arcipelago ciclicamente soggetto a simi devastanti), dovrebbe incentivare gli investimenti nelle tecnologie pulite, che offrono – e offriranno sempre di più in futuro – enormi possibilità d’investimento e un livello di sicurezza incomparabilmente maggiore.

La società civile giapponese l’ha già capito da tempo; la speranza è che, come spesso succede, la classe dirigente non sia troppo “in ritardo” rispetto alla prima.

Edoardo Quiriconi

 

 

(1) La grande pianura del Kanto, sulla quale sorge Tokyo, è una delle zone più sismiche al mondo, ciclicamente colpita da terremoti violentissimi. La capitale giapponese, in particolare, sorge proprio sopra una delle faglie più “ballerine” in assoluto ed è stata rasa al suolo a più riprese dalla forza devastante dei sismi che l’hanno colpita nel corso della sua storia. L’ultimo terremoto “ufficiale”, che provocò più di 143.000 vittime, è datato 1923. Nel 1944, in pieno conflitto mondiale, la città fu colpita da un altro sisma, del quale la propaganda governativa giapponese non informò il mondo, temendo che ciò avrebbe potuto far cadere le riserve americane circa un’invasione via terra partendo proprio dalla capitale del Paese.

 

(2) Ogni anno, in Giappone, in tutte le scuole e i luoghi di lavoro si svolgono esercitazioni antisismiche obbligatorie che insegnano – per quanto possibile – a reagire in maniera ordinata, a seguire criteri di condotta standardizzati e a preparare dei kit di sopravvivenza nel caso in cui si rendesse necessario abbandonare le abitazioni.

 

(3) Per un accurato e appassionante racconto dei drammatici eventi che seguirono all’incidente della centrale di Fukushima Dai-Ichi, si veda il bel libro: “Tsunami nucleare. I trenta giorni che sconvolsero il Giappone”, Il Manifesto Libri, Roma, 2011. Scritto dal bravo giornalista Pio D’Emilia, corrispondente dall’Estremo Oriente per Sky TG 24, è il racconto in prima persona del viaggio intrapreso verso la centrale nucleare in avaria, dove fu il primo giornalista non giapponese ad arrivare. Dal libro è stato tratto un bel docu-film, “Fukushima. A Nuclear Story”, uscito a marzo del 2016 in occasione del quinto anniversario del disastro atomico giapponese.

 

(4) Basti pensare al poco edificante fatto per cui, in piena emergenza post-incidente di Fukushima Dai-Ichi, la multinazionale francese dell’energia Areva non tardò a mandare dei suoi emissari in Giappone con l’intento di convincere le autorità locali ad acquistare i nuovi, “super sicuri” reattori made in France al posto di quelli della General Electric, ritenuti dai francesi insicuri e obsoleti.