Sigari, cioccolata e poesia da western

In un western misconosciuto e bellissimo, sigari e cioccolato occupano una sequenza fondamentale. Il film è Terra di Confine (2003), diretto e interpretato da Kevin Costner.

Un’opera che potremmo definire d’altri tempi. Perché nostalgica di un classicismo, testuale e stilistico, di cui si stanno perdendo tracce e abitudini. Partiamo dall’autore.

Costner è un attore dotato di grande fisicità.

Dote che, in parte, colma una gamma espressiva oggettivamente limitata.

Come interprete, sfonda nella seconda metà degli anni Ottanta.

Lawrence Kasdan, che lo aveva scelto per una piccola parte ne Il Grande Freddo, poi tagliata in fase di montaggio, promette di farsi perdonare affidandogli un ruolo di peso nel primo western del regista (Silverado, 1985).

Il giovane Kevin si fa subito notare, ruba la scena ai più esperti colleghi di set (Scott Glenn, Danny Glover, Kevin Kline, Jeff Goldblum) e conquista il pubblico.

Sull’onda di quel buon risultato, nel 1987, raggiunge la definitiva consacrazione grazie a Brian De Palma, che gli offre il proscenio de Gli Intoccabili, accanto al grande vecchio Sean Connery e al “mostro” Robert De Niro: che nei panni di Al Capone sfodera sigari a misura di potere, contrapposti a quelli, più modesti (e più corti), fumati dagli eroi del racconto.

Tre anni dopo, il trionfo. Costner produce, dirige e interpreta Balla coi Lupi, western che, mantenendo la linea del racconto classico, incentrato sul mito della Frontiera, riprende e aggiorna lo spirito liberal della New Hollywood (Piccolo Grande Uomo, Soldato Blu…), sfornando un’opera di ampio respiro, schierata dalla parte dei nativi.

Terra di Confine riabbraccia quel senso di “americanità”: il contatto con la Natura, la percezione suggestiva dell’uomo di fronte all’Infinito, all’enormità degli spazi, alla libertà scandita dalla vastità del cielo, dall’aggressività del sole e dalla brutalità della pioggia.

Ma vi aggiunge, in fase testuale, la delusione artistica vissuta dal regista, scottato da tanti fiaschi, passi falsi, fallimenti commerciali (in primis, Waterworld) che ne hanno ridimensionato immagine e attrattività hollywoodiana.

Un disappunto che finisce per giovare alla riuscita dell’opera.

Costner, infatti, riversa su ogni passaggio narrativo un senso di disagio, di iniquità, di ingenuità frustrata e di ideali intonsi, tratteggiando una lotta archetipica tra Bene e Male, tra bovari e uomini di potere, tra genuinità dell’essere e perfidia dell’avere.

Ed è qui che si inserisce la sequenza cui facevamo cenno all’inizio.

Obbligati (sul piano morale prima ancora che pratico) a gettare il guanto di sfida al ricco e dispotico padrone della città, il personaggio di Costner (Charley) e quello di Boss (un maiuscolo e dolente Robert Duvall) si ritrovano a un passo dalla sparatoria finale.

Convinti che la fine sia prossima, entrano in un emporio e acquistano tutto ciò che hanno sempre considerato inarrivabile.

Non tanto per il prezzo, quanto per una visione atavica delle distinzioni sociali, tesa a precludere al popolo il consumo di alcuni beni.

Ed ecco gli acquisti di Boss: due tavolette di pregiato cioccolato svizzero e due dei migliori sigari disponibili sul mercato.

Pochi istanti e Boss ha già addentato la cioccolata, esprimendo soddisfazione, godimento, appagamento per ciò che per tutta una vita era sembrato appartenere ad altri e che invece, in quel momento, è diventato suo.

“Sai dov’è la Svizzera?”, chiede all’amico, senza ricevere in cambio risponde esaurienti.

Poi i due amici-colleghi si siedono per terra, al riparo di un grosso carro, in attesa dell’epilogo.

E’ il momento del sigaro.

Lo fumano insieme.

Charley si ricorda tardivamente del cioccolato, che tenuto per troppo tempo in tasca si è quasi liquefatto.

Preso in giro da Boss, scarta ciò che resta della tavoletta e vi tuffa golosamente le dita, ritrovando una dimensione fanciullesca mai vissuta prima.

Pochi istanti di serenità, scaturita dal felice connubio tra amicizia virile (perno del genere western), imprevedibile tenerezza (nell’emporio, convinto della propria imminente dipartita, il rude Charley ha ordinato e pagato in anticipo un prezioso servizio da tè per la donna di cui si è innamorato).

Cui si aggiunge una sorta di simbolica sospensione, un riscatto esistenziale che prescinde dalla successiva scena clou (la sparatoria, appunto) e trasforma una comune scena di raccordo in un cruciale passaggio narrativo.

I sigari e il cioccolato non sono solo gustose distrazioni.

Sono conquiste.

Sono ricchezza.

Sono capricci che i due rozzi cowboy, pur potendoselo permettere, hanno sempre considerato superfluo, elitario, estraneo alla propria essenzialità.

Quando la morte (cui in realtà scamperanno) bussa alla loro vita e si apposta in agguato, ciò che sono portati a fare, su impulso del più anziano e saggio dei due, è riappropriarsi di quei piaceri: piccoli eppure lussuosi, non perché costosi ma perché squisitamente umani e resi deliziosi dalla virile condivisione.

Una parentesi artistica poco citata, da molti frettolosamente scordata, eppure carica di umana autenticità, che il genere di fondo (il western, elevato da André Bazin al rango autoriale di “cinema americano per eccellenza”) contribuisce a rendere ancora più significativa, struggente e poetica.

Nel senso più whitmaniano del termine.

Matteo Inzaghi