Se solo una sera una puttana…

Sono andato a un passo, molti anni fa, dal diventare famoso, da meritare addirittura il titolone d’apertura del “Corriere”: io ne ero beatamente inconsapevole, ma il destino stava già scartabellando alla ricerca di una mia foto.

La fama si è avvicinata, posso proprio dirlo, di nascosto, era lì lì per toccarmi, ma si è fermata a un passo.

A mettersi di mezzo, restituendomi a una esistenza nel tiepido chiaroscuro dell’anonimato è stata, mi tocca dirlo, una puttana.

E’ una storia vera.

Ora vi racconto, sarò breve ma devo partire dal paesaggio.

Eravamo a metà degli anni Settanta, ero giovane, inevitabilmente stupido ma ardimentoso e pieno di passioni.

Erano anni in cui chi aveva passioni faceva, in politica, una scelta di campo netta, estetica tanto quanto politica: la mia scelta fu che dove stavano gli eskimo non potevo stare io e mi fu naturale andare a destra.

Non la destra missina del Fronte della Gioventù, dove qualche amico pur l’avevo.

Mi pareva anch’essa vittima di quella insolazione ideologica che trasformava giovanetti altrimenti perbene (non tutti, non tutti) in tupamaros da Carnevale, straparlanti e brutti, convinti nella loro arrogante colossale ignoranza di poter, quei bamba incapaci di cuocere un uovo, orientare i destini del mondo, e forgiarli secondo le loro infantili disneyane fumettistiche infatuazioni.

La mia era, ed è tuttora, la destra liberale, non priva allora di una certa sapida retorica risorgimental-patriottarda, ma scettica sulla bontà degli uomini e sull’uso che anche i migliori di loro faranno del potere, e allergica ai rivoluzionari e ai masanielli straccioni molto più che ai pur nefasti forchettoni democristiani.

Con qualche amico di uguali sentimenti, nei licei milanesi avevamo fondato un movimento, chiamato Nuova Confederazione Studentesca (il Generale Lee era un mio beniamino), che vinceva a mani basse le elezioni studentesche benché non avesse, come si diceva allora, “legittimità democratica”, cioè diritto di parola e confronto con i coetanei di sinistra, dagli allora iperprogressisti e inguardabili ragazzi di Comunione e Liberazione, ai grigi minifunzionari della FGCI, fino al pulviscolo di furbetti, fessacchiotti e delinquenti puri che componevano i vari movimenti extraparlamentari, nei quali purtroppo militavano, questo bisogna riconoscerlo, le ragazze più carine e liberali di costumi se non di idee.

Vincevo in particolare io le elezioni scolastiche al mio liceo, Liceo Classico Cesare Beccaria.

La dabbenaggine dei giovani elettori irritava comprensibilmente i miei democratici dirimpettai, tanto da spingerli a manifestare il loro disappunto chiamando spesso a soccorso, davanti a scuola, gruppetti di entusiasti armati di bastoni e catene, ansiosi di dibattere “vis a vis” con me urgenti questioni istituzionali.

Ero sì ardimentoso, e non disprezzavo la saltuaria allegra scazzottata con degli sbarbatelli su di giri, ma non fesso.

Mi attrezzavo dunque, con l’aiuto di un tremebondo Preside che scoprii poi essere zio e padre putativo di Vittorio Sgarbi, a sgattaiolare da uscite secondarie o, fattisi quelli più furbi, dall’approfittare di un cortese passaggio in volante da parte di una pattuglia di poliziotti calabresi e fascistissimi, divenuti alfine quasi parenti.

Questa ginnastica politica, di per sé, non mi avrebbe avvicinato alla fama, se non nei dintorni di Via Linneo, e non avrebbe introdotto in scena la puttana di cui sopra, se una sera, dolorosamente frustrati dalle lunghe e inutili attese, alcuni dei tifosi dell’ Internazionale sbagliata non avessero avuto un colpo di genio.

“Se non ci vuol parlare davanti a scuola” pensarono illuminandosi “perché non lo andiamo a trovare direttamente a casa ?”.

Casa che conoscevano bene, perché due piani più sotto uno degli ultras ci abitava.

Premurosi, prepararono un adeguato corredo: chiavi inglesi, sbarre di ferro e catene.

I coltelli non usavano, ci si poteva ferire credo, e le pistole all’epoca non erano ancora entrate in assortimento (si diceva che quelle le usassero i fascisti: avrebbero imparato presto).

Sapendo che i diciottenni raramente passano il sabato sera in casa, scelsero un sabato per l’incontro ravvicinato, e quatti quatti verso le undici parcheggiarono una piccolo borghese Fiat 124 a pochi metri da casa mia.

So questi particolari perché, candido e non troppo pentito, me li raccontò uno di loro, incontrato vent’anni dopo senza più eskimo ed anzi in un ridicolo blazer (moriranno tutti notai, profetizzava Ionesco: solo quel poveretto di Capanna lo smentisce).

In auto, si provarono i passamontagna ed estrassero le chiavi inglesi.

Cosa passasse nella loro testa non lo so, eccitazione e agitazione immagino.

Il tempo però passava, e io non arrivavo, trattenuto da un angelo o più prosaicamente da qualche birra.

I quattro si alternavano a scendere di vedetta in attesa del brat-brat del mio motorino, ma il motorino non appariva.

Togli e metti il passamontagna, occhio che passa gente, immagino lo stress.

Uno di loro, mi disse il blazer, era cattivo, ma cattivo proprio.

Io non arrivavo, ma arrivò invece la puttana.

Come si chiamava, non lo so.

Immagino che fosse quella, non bella né giovane (ma a quella età per me non lo erano già le trentenni), che incrociavo quando tornavo davvero tardi, vestita spesso di uno strano blu, direi discreta nel mostrarsi, prudente, quasi pudica.

Va a sistemarsi, l’avete già capito, vicino alla 124, e dopo poco li vede.

Lei guarda loro, loro guardano lei.

Imbarazzo di lei non so, ma di loro immagino senz’altro.

Vede la macchina, vede le loro facce, vede forse i passamontagna e qualcosa che luccica sinistro.

“Che facciamo?”

Parolacce rabbiose, e unanime votazione del proletariato riunito in assemblea, due su sedili anteriori e due su quelli posteriori, per svignarsela con rapida e nervosa ritirata strategica.

Io sono arrivato, credo, poco dopo.

Per pochi minuti, quella puttana, mandata in fondo appunto da un protettore, mi ha fatto mancare l’appuntamento con la gloria.

Avrei potuto oggi avere, come Sergio Ramelli, una via che porta il mio nome.

Gianbattista Titta Rosa