Scrittura e diplomazia

Tutti gli uomini, anche le donne, tranne naturalmente gli analfabeti, possono scrivere.

Tra questi, pochi ambiscono a comunicare agli altri le proprie esperienze, i propri ricordi, i sogni, le speranze, le frustrazioni e gli incubi e cioè, in definitiva, ad essere pubblicati.

Da giovani, si vorrebbe somigliare a Rimbaud mentre i più somigliano invece a Trissotin (personaggio ridicolo e vanitoso dell’opera “Les femmes savantes” di Molière – ndt).

Nell’infima parte della popolazione che è il gruppo dei letterati, esiste e si evidenzia, un micro-ambiente: quello dei diplomatici.

Certo, non hanno il monopolio della società letteraria ma, per esempio, confrontandoli con i medici, gli avvocati o i professori, sono decisamente sovra rappresentati.

Pensate sia solo un’ impressione?

Ebbene, una veloce ricerca lo conferma.

Stendhal, Eça de Queiroz, Ivo Antic (Nobel 1961) sono scrittori interessanti ma non ebbero incarichi di primo piano durante le loro carriere diplomatiche.

Non così per Paul Claudel, Paul Morand, Jean Giraudoux, Saint John Perse (Nobel 1960), quattro fenomeni del mondo letterario francese della prima metà del ventesimo secolo e contemporaneamente attori di primissimo piano al quai d’Orsay.

Al contrario, Gobineau fu eccellente scrittore ma un diplomatico mediocre.

Il caso del diplomatico/scrittore è ben lungi dall’essere limitato alla Francia.

Pensiamo agli ambasciatori premi Nobel per la letteratura : George Seferis (1963), Miguel Angel Asturias (1967), Pablo Neruda (1971), Octavio Paz (1990), senza contare altri ambasciatori e grandi scrittori come Carlos Fuentes o Guimarães Rosa; quest’ultimo, poi, era medico e divenne scrittore solo dopo aver superato il concorso al ministero per gli Affari esteri brasiliano.

Nello stesso periodo, alcuni diplomatici che non divennero ambasciatori, come Romain Gary o Czeslaw Milosz (Nobel 1980), conobbero la gloria letteraria.

Veniamo quindi al dunque : come mai il diplomatico diventa scrittore ?

Forse perché ha molto tempo libero e nulla d’altro da fare?

Se questa tesi trovasse qualche conferma, costui potrebbe abbandonarsi ad altre sofferenze creatrici come la pittura o la musica e invece, scrive.

Il diplomatico scrive molto e/o firma ciò che altri scrivono per lui e sotto la sua responsabilità.

Gli è che il diplomatico è uno straniero nello Stato in cui è inviato.

Quello Stato ha il monopolio per l’utilizzo della forza nel proprio territorio e il diplomatico, pur plenipotenziario, non ha in realtà alcun potere nel paese in cui opera.

Non può far leva su alcun regolamento o norma per opporsi agli ‘indigeni’ sul loro proprio territorio; non può, al limite, che fissare gli orari di apertura del consolato al pubblico.

Inoltre, non ha neanche poteri finanziari, non può cioè prelevare soldi sul posto e al limite spenderli sotto il controllo reticente e invidioso della propria capitale d’origine; gli stranieri all’estero non votano e non rappresentano nulla ai fini elettorali.

L’Eccellenza ha meno poteri della vigilessa che infligge contravvenzioni per un divieto di sosta.

Cosa rimane, quindi, al plenipotenziario?

Certo, ha un’influenza che è tanto più efficace quanto meno l’influenzato la percepisce.

Con delicatezza, il diplomatico può informare le autorità in patria e gli ‘indigeni’, immaginare, suscitare azioni, dichiarazioni comuni, oppure intralciarle fino ad impedirle quando pensa siano nefaste per gli interessi del suo paese.

E’ per questo che scrive.

Occorre render conto, narrare, raccontare ciò che si fa, ciò che si dice, ciò che si vede, ciò che risponde l’interlocutore e in che modo.

Non basta fare rapporti, bisogna farsi leggere.

Raggiungere il buon lettore è il vettore dell’azione del diplomatico, il supporto per ciò che vuole ottenere.

Questo lettore è sottoposto ad un bombardamento di informazioni, di indicazioni, a volte contrarie e contraddittorie. (Rousseau lo sottolinea nel settimo libro delle Confessioni quando era segretario all’ambasciata francese a Venezia).

Il diplomatico deve saper suscitare l’interesse, non mentire mai, ma, così come al limite può fare l’artista, scrivere una verità scelta dalla migliore angolazione possibile.

Ecco svelato, dunque, come, per professione, il diplomatico è ‘trascinato’ a diventar scrittore per un pubblico il più vasto possibile per vedere se gli happy few (i pochi felici) possono diventare happy many (tanti felici) così come scriveva Stendhal.

Non tutti gli ambasciatori diventano scrittori che riescono a pubblicare e non tutti i diplomatici che pubblicano sono ambasciatori.

L’attività letteraria più praticata in questa professione è la raccolta di ricordi, di memorie.

A volte si tratta di testimonianze molto interessanti, soprattutto se non riguardano l’autore.

Peraltro, quasi sempre l’esercizio vira nondimeno al narcisismo.

Ciò, in fondo è peculiare delle memorie e dei ricordi.

A buon diritto Fausto Coppi può parlare delle sue sofferenze e della soddisfazione che prova quando stacca i suoi inseguitori nella salita al colle dell’Izoard; è lui che pedala.

Fa sorridere il diplomatico che scrive: sono io che ho salvaguardato la pace, rescisso il tale contratto…

Vanitas vanitatum.

Avrà senz’altro contribuito per la sua parte più o meno importante, ma non come l’ebanista che con dei pezzi di legno fabbrica un mobile.

Il diplomatico non può pretendere di aver fatto “tutto da solo” un’opera importante; deve essere lucido e cioè, umile.

E’ un coagulante di buone e cattive volontà, le utilizza.

Questi elementi possono sfuggirgli ad ogni istante; è tutto.

I suoi risultati dipendono infatti da fattori e parametri che non domina.

Tutt’al più, può dirsi: “se non fossi stato qui, questo non si sarebbe fatto oppure sarebbe stato diverso nel tempo e nello spazio”.

Di fatto, se le memorie e i ricordi costituiscono il genere letterario più praticato dai diplomatici, possono certo diventare delle ottime edizioni ma non entreranno mai ne la Pléiade.

Questi diplomatici/scrittori, così diversi fra loro e per le loro opere, hanno un punto in comune: sono morti.

Attualmente infatti non sembra spiccare, in tal senso, nessun diplomatico/scrittore.

Può essere che ne esistano ma, punto primo, manca l’essenziale: il distacco.

In Francia, dopo Racine e Voltaire, l’opinione dominante al diciottesimo secolo, era che non si sarebbe più potuto scrivere una tragedia; e non si era ancora neanche scoperto Shakespeare.

Per capire, dobbiamo tener conto di due fattori, alternativi e cumulativi: i diplomatici dissimulano il loro talento di scrittori e la letteratura romanzesca, poetica o teatrale langue.

Non è che gli scrittori scrivano male.

Purtroppo li si incoraggia a non essere comprensibili al grande pubblico.

Bisogna essere tecnici.

I messaggi elettronici e i telefoni, che siano o meno criptati, sono oramai il mezzo di comunicazione privilegiata del diplomatico.

Scrivere telegrammi è passatista.

Quando redigono un telegramma, i diplomatici, soprattutto nelle cerchie multilaterali (Unione Europea, Onu, Nato) utilizzano sempre più lo stile letterario delle istruzioni per l’uso di apparecchi elettronici scritti in coreano e tradotte in francese.

Si ostenta un approccio ‘per tutti’, trucco pubblicitario, mentre soltanto lo specialista emittente e quello ricevente possono capire.

Una forma letteraria derivante forse dalla poesia ermetica e intuitiva.

Ma d’altra parte chi decide in politica o in economia non legge più quello che scrive un ambasciatore; i diplomatici lo sanno bene.

I dirigenti invocano a scusante la mancanza di tempo e valorizzano i membri della Corte che scrivono dei riassunti.

In tal modo, a chi decide, vengono a mancare le sfumature, le piste.

La logica informativa è binaria, accetta soltanto il sì o il no.

In tal modo il diplomatico è spinto a scrivere in stile ‘istruzioni per l’uso’ mentre di fatto sta parlando di questioni umane.

Non si tratta di linguaggio semplice ma semplicemente di falsa comunicazione.

Correlativamente, la letteratura non può che degenerare.

Nathalie Sarraute, maestra del ‘Nouveau roman’, aveva illustrato l’Era del Sospetto.

Paul Valery, interpellato sul perché non avrebbe scritto romanzi, aveva risposto che non avrebbe potuto, in buona fede, scrivere : la marchesa è uscita alle cinque…

Era diventato impossibile immaginare un romanzo perché nessuno ci credeva più.

In Francia comunque persiste una letteratura da fiction di origine diplomatica.

Vi partecipano alcune ottime penne come quella di Francis Huré o di Patrick Imhaus.

Questi ambasciatori hanno degli estimatori ma copie un po’ scarse.

C’è un ambasciatore che vende bene ma prima di assumere la carica, Jean Francois Rufin aveva ricevuto il premio Goncourt ed era stato ricevuto all’Académie Francaise.

Di fatto, i diplomatici che raggiungono un buon numero di pubblicazioni si inseriscono nella letteratura che attualmente vende di più: quella del filone poliziesco.

Due esempi: l’olandese Robert van Gluck che scrive in inglese, col suo giudice cinese del settimo secolo, oppure Jean François Parot con i suoi intrighi della Francia prerivoluzionaria.

In un caso e nell’altro, non sono testimonianze di fatti diplomatici che però possono considerarsi l’humus da cui scaturiscono le loro creazioni.

Malgrado tutto non dobbiamo però dubitare che il personaggio dello scrittore/diplomatico sopravviva.

Gli sviluppi futuri si baseranno senz’altro sulla cultura tecnologica.

Wikileaks o The Spanish Ambassador’s Suitcase ci indicano che alcune pepite letterarie giacciono nella corrispondenza diplomatica: future copie numerate.

Un’altra via è aperta dalla NSA (National Security Agency – ndt ) e i suoi discepoli.

La progressiva diffusione di segreti, le manipolazioni di indiscrezioni, le false confidenze costituiranno sorgenti feconde per letterature fondate sulle realtà, l’autenticità e andando oltre l’era del sospetto che diventa sospettabile: John Le Carré ne è un precursore.

Fin dall’ infanzia l’essere umano ha bisogno di favole, di leggende e racconti.

La diplomazia è così colma di risvolti, imbrogli, drammi e speranze che continuerà a fornire un contingente di uomini di lettere.

Per il racconto occorrono tre elementi, dice il saggio: prima una buona storia, poi una buona storia e infine una buona storia.

 Jacques Rummelhardt *

 

(maggio 2014)

*Jacques Rummelhardt, funzionario del quai d’Orsay dal 1964 al 2006, già Ambasciatore di Francia

 

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