Quale la politica estera di Trump?

Stupore, commenti sguaiati, timori e speranze.

E’ un miscuglio di analisi, sentimenti e stati d’animo differenti il day after americano.

Un turbinio che l’approssimarsi dell’insediamento di Donald Trump alla White House sembra non placare neanche in parte.

La reazione veemente, a tratti rivoltosa, della larga maggioranza dell’establishment americano ad una vittoria di misura ed inaspettata, dimostra molto più dei numeri che la sconfitta elettorale non interessa semplicemente la candidata democratica, ma una visione della governance, degli interessi e del ruolo nazionale assai diversa da quella condivisa con la maggioranza silenziosa che risiede nelle grandi periferie urbane e nelle piccole contee degli States.

Se sul piano economico – sociale il programma, ad eccezione dei destini della riforma sanitaria, è sostanzialmente chiaro e delineato – dalla promessa di risollevare le condizioni della classe media americana con tagli alle tasse, alla marcia indietro sui trattati commerciali internazionali passando per un piano di investimenti infrastrutturali in grado di riqualificare le periferie urbane – è sul fronte internazionale che l’effetto che produrrà il tycoon è di difficile lettura.

Ogni ipotesi, infatti, allo stato sembra un azzardo.

Sebbene le dichiarazioni di Trump sembrino destinate a mettere fine ad una parte delle ingerenze a stelle e strisce in giro per il mondo, dando così seguito al teorema-slogan dell’America First, ciò richiede e chiede una necessaria crescita di responsabilità e di ruolo dei partner internazionali e, soprattutto, dell’Europa.

Se pur molti analisti considerino questo un male, non è detto, parafrasando un antico adagio, che tutti i mali vengano per nuocere.

Infatti, se una presidenza Clinton prometteva di essere piuttosto gravosa per l’Europa con un’agenda basata sull’esportazione e la tutela aggressiva dei diritti, delle libertà e della ‘democrazia’ e con un rapporto già compromesso con la Russia di Putin, con Trump, il vecchio continente,  sarà chiamato a tutelare i propri interessi ed i propri ‘limes’ con maggiore autonomia, predisponendo ed integrando nuove e necessarie politiche comuni.

La difficile trattativa che si affaccia all’orizzonte sui rapporti commerciali USA-UE con il tema della ripartizione dei costi della NATO e la diminuzione della spesa americana per la difesa euro atlantica, dovrebbe favorire lo sviluppo di una cooperazione unitaria delle Forze Armate europee e di una integrazione sui principali temi di politica estera.

Sia ben chiaro che, quantunque sia questa la linea della nuova Amministrazione americana, ciò non si tramuterà in una sostanziale passività, ma piuttosto in un non interventismo ‘attivo’, un protezionismo bilanciato tra Cina e USA, ma anche con il Giappone e la Corea del Sud.

Infatti, la grande forza americana rilegata ad una posizione isolazionistica, specie in un mondo globalizzato, non può essere che annoverata come un’ipotesi irrealistica, del tutto lontana dalla stessa volontà e disponibilità del presidente.

Ad ogni modo, l’aspetto più interessante e meno scontato del nuovo corso, visti i protagonisti e considerate le tensioni derivanti dagli anni della presidenza Obama, sarà quello di decifrare i rapporti con la Russia di Putin.

La dichiarata e reciproca volontà dei due leader di avviare una nuova e proficua fase nelle relazioni con Mosca, si trascina dietro le polemiche sulla natura dei loro rapporti.

E’ una polemica non nuova, già emersa con dirompenza nella lunga campagna per le presidenziali non solo in seguito alla vicenda ‘mail’ ma, soprattutto, a causa dei rapporti incestuosi tra personalità ed uomini di affari assai vicini al magnate americano e gli apparati del potere economico russo; un tema, che rappresenta un vero terreno minano su cui i democratici, ma non solo, non esiteranno a dare battaglia.

Ma un ritrovato clima d’intesa tra le due potenze –  anche grazie ad una sintonia tra due personalità assai diverse, ma con molti punti in comune – va salutato con favore, poiché potrebbe produrre una sinergia importante, forse indefettibile, per l’intera area mediorientale, con effetti distensivi che non potrebbero che favorire una ripresa dell’economica con l’avvio di una necessaria fase di stabilizzazione dell’area.

Trump, poco avvezzo ai riti della politica ed ancor meno a quelli della diplomazia, dovrà però imparare rapidamente che le questioni mediorientali richiedono tempo, pazienza e conoscenza dei dettagli per comprendere una regione la cui complessità è fuori dall’ordinario e che rappresenta una matassa difficile da dipanare, con posizioni intrecciate ed un risiko che difficilmente può avere vinti e vincitori.

E’ questo il dossier che più ci interessa e ci riguarda da vicino, come italiani e come europei, che racchiude una serie di partite aperte ed intricate che necessitano di una decisione urgente e non più demandabile.

In Siria, ad esempio, Trump dovrà scegliere da subito la strada da intraprendere.

Seppur nel complesso mondo americano si guarda con minore ostilità alla campagna militare russa ed iraniana a sostegno di Assad, il tycoon dovrà decidere se continuare con la confusa strategia di Obama o ricercare da subito un accordo vero e sostanziale con Mosca.

Una scelta, questa, che avrebbe effetti distensivi sui rapporti con la Turchia di Erdogan, da tempo in rotta di collisione con Washington, ma che produrrebbe scontate tensioni con i Paesi arabi, con Israele e con larga parte dell’Europa.

C’è poi la travagliata vicenda del nucleare iraniano.

Tra le volontà elettorali di Trump, spicca il suo impegno a cassare l’accordo raggiunto con fatica da Obama dopo più di un decennio di negoziati.

Sconfessarlo, accontentando così un congresso a guida repubblicana, significherebbe mettersi contro non solo l’ONU, sotto la cui egida si è giunti all’accordo, ma la stessa Russia, la Cina, ed in parte l’Europa che ha puntato molto sul compromesso con Teheran.

Per inverso, sarebbe invece un grande regalo a Israele ed a Netanyahu che, in patria come sul piano internazionale, resta forse il miglior (e forse l’unico) alleato di Trump.

Infine, vi sono le questioni più propriamente mediterranee, dal rapporto con l’Egitto al caos libico.

Sullo sfondo c’è la necessità di rilanciare una seria cooperazione tra i Paesi del Mediterraneo sui temi dello sviluppo, delle migrazioni e della cultura.

Tutte questioni che passano attraverso una ritrovata stabilità e sicurezza dell’area.

Ciò che è certo è che vivremo tempi davvero interessanti.

Ma la sfida dell’America di Trump può rivelarsi un boomerang per un’Europa senza rotta e senza bussola.

Sta a noi cogliere l’opportunità o restare, così come già avvenuto in molte partite mediterranee, spettatori interessati, inermi e spesso silenti, ricettori di contraddizioni e non di opportunità.

Stefania Craxi