Protezionismo, svalutazioni ed elusione fiscale come rischi sistemici

Occorre cautela nell’utilizzare pratiche tradizionali per affrontare i complessi problemi di un mondo economico profondamente cambiato ed interconnesso e per provare a far risalire la percentuale di lavoro salariato all’interno dei Paesi di più consolidata ed antica esperienza manifatturiera.

I super dazi da imporre alle merci importate non sono che il primo passo per dare inizio ad una svolta protezionistica negli scambi internazionali che per il nostro Paese che ha nell’export una consolidata tradizione, rappresenterebbero un grave handicap.

Tuttavia innescare una guerra dei dazi non creerebbe vantaggi duraturi per nessuno, dal momento che ad ogni mossa corrisponderebbe una contromossa, con il risultato finale di non avvantaggiare alcun contendente ed anche l’ipotesi di riportare in patria quote di lavoro, grazie a politiche protezionistiche si rivelerebbe un’arma inefficace, perché la manifattura globale è sempre più digitalizzata (industry 4.0), la competizione è sulle innovazioni tecnologiche e la catena del valore è sempre più interconnessa.

Questa risposta rappresenta il vecchio modo di affrontare il problema, perché il protezionismo tradizionale non tiene conto della significativa convergenza che a livello strutturale connette l’interscambio delle merci con l’internazionalizzazione delle aziende e del fatto che le catene globali del valore, integrano “matricialmente” le grandi multinazionali con molteplici fornitori e manifattori locali, riconducibili al termine glocale!

Anche le svalutazioni competitive, possibili solo con un’ uscita dalla moneta unica e che avvantaggiano solo chi produce per esportare, sono una droga che nel brevissimo periodo consente di compensare il differente livello di produttività di sistemi economici disallineati, ma dopo pochissimo tempo, con l’incremento dei costi dovuti a ciò che si deve importare per produrre, esaurisce i suoi effetti e i costi crescenti sono poi pagati da tutti gli altri consumatori.

Il vero nodo da affrontare non è quello di ridurre il commercio tra i vari paesi con politiche protezionistiche e svalutazioni della moneta, quanto piuttosto come conciliare la sua crescita, rendendola inclusiva, socialmente ed ambientalmente sostenibile ed integrando, poi, la globalizzazione corretta delle transazioni, l’internazionalizzazione sempre più spinta delle aziende e l’impetuoso svilupparsi delle nuove tecnologie.

Sostanzialmente come ridistribuire più equamente i vantaggi della crescita del commercio mondiale e renderla più ricca di lavoro dipendente e/o autonomo.

Una prima risposta può arrivare dal coordinamento delle politiche fiscali ed in ambito EU dalla creazione di un unico ministro delle finanze, perché una delle conseguenze più nefaste della globalizzazione asimmetrica, è stata la costruzione di un sistema di norme ( i grandi trattati del commercio mondiale) disegnate ad esclusivo vantaggio delle grandi multinazionali, dei loro proprietari, azionisti e top manager.

Infatti queste regole hanno consentito un’elusione fiscale (possibilità di non pagare le imposte dovute,“legalmente”) enorme e scandalosa e sono uno dei principali problemi che affliggono il Mondo.

Questa elusione inquina l’economia di mercato, trasforma un modello economico in un ideologismo manicheo, il libero mercato in capitalismo di rapina, aumenta le ingiustizie e sottrae gigantesche risorse alla collettività che ne ha un bisogno assoluto per investire in sanità, istruzione, infrastrutture, servizi e sicurezza sociale.

La conseguenza poi più vistosa è l’aumento dell’imposizione fiscale sul ceto medio e popolare per provare a compensare il gigantesco vuoto di gettito generato dalle multinazionali, soprattutto le digitali (Google,Apple,Facebook,Amazon) che delocalizzano, oltre al lavoro, anche i profitti nei paradisi fiscali.

Il populismo e il sovranismo trovano quindi, alimento e non giustificazione, in un meccanismo perverso che impoverisce e radicalizza le scelte di un ceto medio sempre più spaventato, privo di identità (società liquide!) e di rappresentanza che si sente abbandonato e non tutelato da una politica che non sa svolgere il suo ruolo di interprete dei cambiamenti e di regolatore delle scelte nell’interesse della maggioranza dei cittadini.

Luigi Pastore