Preludio alla Seconda Guerra Mondiale in Asia: la battaglia di Nomonhan

Secondo gli antichi romani la Storia è maestra di vita. Va studiata – e non va dimenticata – per far sì che gli errori compiuti nel passato possano essere evitati in futuro.

Alcuni fra i più brutali e sanguinosi conflitti che l’uomo abbia mai provocato sono sorti in seguito a episodi inquietantemente simili fra di loro e, all’apparenza, di secondaria importanza.

Gli storici, gli analisti e gli accademici lo sottolineano periodicamente e a più riprese – nei loro convegni, saggi e libri – eppure, ogni volta, al momento decisivo la rimembranza storica sfugge alle menti dei poco illuminati governi di turno.

Come dimenticare, giusto per fare un esempio, che la Prima Guerra Mondiale, con il suo “carico” di 16 milioni di morti, scoppiò con l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo e di sua moglie da parte del nazionalista serbo Gavrilo Princip? Le tensioni sull’asse Europa Occidentale – Balcani erano già in pieno fermento all’epoca, eppure fu necessario (e sufficiente) un singolo incidente per far precipitare la situazione in modo irreversibile.

Analogamente, in un momento storico in cui l’Asia Orientale vede inasprirsi le tensioni diplomatiche tra Cina e Giappone (giusto pochi giorni fa una fregata da guerra cinese è entrata illegalmente nelle acque territoriali nipponiche al largo delle contese Isole Senkaku, che il Governo di Pechino riconosce con il nome Diaoyu), un qualsiasi, anche banale e accidentale incidente, potrebbe innescare una dinamica di ostilità dalla quale sarebbe poi assai arduo uscire.

Interpretando gli eventi in quest’ottica risuonano inquietanti le parole del Primo Ministro giapponese Abe Shinzo il quale, durante il Forum Economico Mondiale di Davos agli inizi del 2014, aveva sostenuto che la situazione geopolitica in atto tra Cina e Giappone fosse sinistramente simile a quella intercorrente tra Gran Bretagna e Germania nel 1914.

Gli enormi interessi economici intercorrenti fra le due superpotenze asiatiche (Cina e Giappone rappresentano, rispettivamente, la seconda e la terza economia del mondo) sembrerebbero suggerire che entrambi i Paesi avrebbero troppo da perdere da una guerra che li vedrebbe contrapposti, ma analoghi ragionamenti venivano portati avanti il secolo scorso in merito ai rapporti anglo – tedeschi: sappiamo tutti com’è andata a finire.

Ebbene, anche la Seconda Guerra Mondiale in Asia ha la sua genesi storica in un conflitto poco conosciuto che esplose 77 anni fa nelle remote terre di confine dell’Unione Sovietica, della Mongolia e dello Stato – fantoccio del Manchukuo controllato dai giapponesi.

L’estate del 1939 vide, infatti, l’improvviso aumento delle ostilità fra le truppe sovietiche e quelle nipponiche intorno all’irrilevante villaggio di Nomonhan, causato da un’apparente scaramuccia per il controllo di un confine conteso fra i due Stati in un’area senza alcuna importanza strategica.

Come spesso avviene in questi casi, l’iniziale “incidente” prese ben presto una direzione incontrollabile.

Lo scrittore giapponese Maurakami Haruki, nel suo romanzo “L’uccello che girava le viti del mondo(1) descrive la battaglia di Nomonhan come un momento storico di violenza senza senso, il cui ricordo perseguita, ad anni di distanza, alcuni dei personaggi che, nel dipanarsi della trama, entrano in contatto con il protagonista del libro.

La battaglia di Nomonhan, combattuta dagli eserciti sovietico e giapponese, ebbe un impatto significativo sulle manovre diplomatiche e sui piani bellici di entrambi i Paesi alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale.

Essa, inoltre, rappresentò una sconfitta di vasta portata per il Giappone, una di quelle che mise maggiormente in luce alcune significative debolezze strutturali in quella che molti osservatori dell’epoca consideravano una formidabile, quasi invincibile, macchina di guerra.

Le ostilità ebbero inizio nel maggio 1939 e proseguirono per circa due mesi con piccoli, ma cruenti, scontri isolati fino a quando, nel mese di agosto, l’Armata Rossa lanciò un’offensiva devastante e risolutoria.

La brillante vittoria del Generale sovietico Georgy Zhukov a Nomonhan lo portò, nel 1941, a essere promosso Comandante in Capo dell’Armata Rossa. In seguito egli divenne famoso per la sua entusiasmante e strenua difesa di Mosca contro l’esercito tedesco, resa possibile anche grazie all’apporto dei veterani che avevano combattuto con lui nell’Estremo Oriente sovietico.

Qualora l’Armata Rossa, infatti, non fosse riuscita ad annientare la minaccia giapponese nella battaglia di Nomonhan, tali truppe di veterani si sarebbero trovate costrette a presidiare il fronte orientale, Mosca avrebbe potuto cadere in mano tedesca e il corso della Seconda Guerra Mondiale avrebbe potuto mutare in modo drammatico.

Fortunatamente per la Russia, a Nomonhan Zhukov si rivelò un maestro in tutti gli aspetti della strategia bellica. Il Generale sovietico, infatti, spiegò i suoi battaglioni di carri armati utilizzando tattiche all’epoca non convenzionali (oggi studiate nelle più importanti accademie militari del mondo), che mandarono nel caos più assoluto gli ufficiali giapponesi.

Inoltre, l’enorme vantaggio dell’esercito sovietico nell’artiglieria di lunga gittata gli consentiva di martellare in modo implacabile le postazioni giapponesi.

La sconfitta del Sol Levante a Nomonhan prefigurò la susseguente disfatta nella Seconda Guerra Mondiale, nel corso della quale – come avvenuto contro l’Armata Rossa – l’esercito dell’Imperatore sottovalutò il nemico e laddove nessuna prova di coraggio e di sacrificio estremo poté compensare l’inadeguatezza di rifornimenti ed equipaggiamenti bellici.

Una delle peggiori conseguenze della debacle nipponica di Nomonhan fu che molti degli ufficiali dal “grilletto facile”, che avevano dimostrato di non possedere né buone competenze militari né buon senso, vennero trasferiti presso il comando centrale delle forze armate a Tokyo.

In quella sede essi arrivarono a occupare posizioni di grande influenza e potere, spingendo per muovere guerra agli Stati Uniti d’America.

La sconfitta nella battaglia di Nomonhan, infatti, li convinse dell’impossibilità di conquistare e mantenere territori in Unione Sovietica (assai ricca di risorse naturali utili alla causa bellica), rendendo le poco difese colonie europee nel Sud-Est Asiatico un obiettivo strategico più appetibile e facilmente attaccabile.

Tale strategia, tuttavia, rese necessario attaccare preventivamente gli Usa per tentare di limitarne al massimo la capacità d’intervento nell’Oceano Pacifico: attacco che si concretizzò domenica 7 febbraio 1941 in quel di Pearl Harbor.

Questa follia portò alla morte di più di due milioni di giapponesi e a un numero incalcolabile di vittime in tutta l’Asia.

La battaglia di Nomonhan – con le sue conseguenze storiche di lungo periodo – è un ulteriore richiamo al fatto che, anche se le ragioni di una guerra possono sembrare poco convincenti, se non addirittura stupide, ciò non significa che, di per sé, essa non si verificherà.

Un monito che l’Asia Orientale contemporanea, con le numerose frizioni locali e le contese territoriali che l’attraversano, farebbe bene a tenere a mente a futura memoria.

                                                                                                                                 Edoardo Quiriconi

 

(1) H. Murakami: “L’uccello che girava le viti del mondo”, Einaudi, Torino, 2007.