Piero Chiara e il cinema

Sono sette, salvo errori ed omissioni, i film tratti da Piero Chiara trasferiti sullo schermo.

Peccato, che al tirar delle somme, siano tutt’altro che magnifici.

Sarà che la celluloide non riesce a rendere quell’atmosfera pigra e indolente che percorre le pagine dei romanzi e dei racconti di Chiara, sarà che i registi non sono sempre all’altezza, fatto sta che il confronto tra pagine (splendide) e pellicole (così e così) è chiaramente, mai avverbio fu più appropriato, impari.

Ripeccato, perché così i giovani che non conoscono il grande scrittore scomparso, dopo aver magari visto uno dei ‘suoi’ film in tv (ovviamente a notte fonda, quasi sempre sull’ingiustamente bistrattata Rete 4) difficilmente si precipiteranno in libreria.
Comunque sia dal mazzo dei sette film, tra le scartine si possono estrarre almeno due assi: ‘Venga a prendere il caffè…da noi’ (1970), tratto da ‘La spartizione’, e ‘La stanza del vescovo’ (1977), dal romanzo omonimo.

Probabilmente non è un caso se sono stati diretti da due grandi del cinema italiano, rispettivamente Alberto Lattuada, recentemente scomparso a novantun anni, e il vispo ottantottenne Dino Risi.

Due registi, e nemmeno questa può essere una coincidenza, nati a Milano: se non proprio, come si diceva una volta, a un tiro di schioppo, a un’ora di treno dalla Luino di Chiara.

Insomma due film in cui si respira l’aria lumbarda, con la U.

Terzo elemento in comune dei due film la presenza nel ruolo del protagonista di Ugo Tognazzi, l’unico lombardo (cremonese per la precisione) dei cinque superlativi, ahinoi defunti, moschettieri della commedia all’italiana.
Due personaggi moralmente ributtanti l’Emerenziano Paronzini di ‘Venga a prendere il caffè’ e il Temistocle Orimbelli di ‘La stanza del vescovo’.

Il primo, placido ragioniere e funzionario del Fisco, di Luino, manco a dirlo, cerca moglie e soprattutto una sistemazione economica.

L’altro, esuberante oltre ogni immaginazione, una consorte ce l’ha già, la grigia Cleofe (Gabriella Giacobbe), con cui – siamo nel 1946 – divide la grande villa sul Lago Maggiore e non più il letto, ma è contro ogni tentazione, come confida al taciturno Marco Maffei (l’attore francese Patrick Dewaere, morto suicida con una fucilata al volto a soli trentacinque anni nel 1982) sulla cui barca si è issato da invadente ospite.
Se Emerenziano punta gli occhi sulle tre zitelle Tettamanzi, Fortunata (Angela Goodwin), Tarsilla (Francesca Romana Coluzzi) e Camilla (Milena Vukotic), bruttarelle, ma con un bel conto in banca, fino al coccolone risolutivo, Temistocle guarda lubrico la giovane e appetitosa cognata Matilde (Ornella Muti), incastrando il candido e involontario complice in un intrigo mortale.

Il ‘caffè’ è corretto con un erotismo casereccio in chiave grottesca: un ritratto di provincia sguaiato e amarognolo con un protagonista tutto tavola e letto, che sposa una qualunque del trittico, ma si concede anche alle altre due secondo un rigido calendario amatorio, che non dimentica la servotta.

Nella ‘Stanza del vescovo’ soffia invece una brezza, proveniente dal lago, vagamente erotica, un po’ scostumata, uno spicchio d’Italia di sbalorditiva immoralità.
Come Tognazzi, anche Johnny Dorelli, poliedrico uomo di spettacolo, cantante melodico (nel ’58 in coppia con Modugno vinse il Festival di Sanremo con Nel blu dipinto di blu), elegante attore teatrale nonché brillante conduttore televisivo e spiritoso protagonista di svariate sitcom, dunque anche Dorelli ha portato sullo schermo due opere di Chiara.

La fragile commediola sentimentale ‘Dimmi che fai tutto per me’, diretta dal dotato ma dispersivo Pasquale Festa Campanile nel 1976, e, quattro anni più tardi, con la regia di Marco Vicario, un passabile giallorosa, ‘Il cappotto di astrakan’. Avendo al fianco entrambe le volte la vistosa e ingombrante, soltanto dal punto di vista fisico, attrice francese Andrea Ferréol.

Nel primo caso Dorelli è lo stimato dentista, trevigiano e sottaniere, Francesco Salmarani, sposato alla ricca Miriam (la Ferréol) e afflitto da un suocero (Jacques Dufilho), destinato a rivelarsi, oltre che uno sporcaccione, un boss della mafia. E l’affare si complica perché il medico si lascia irretire dalla bionda Mary (Pamela Villoresi), sedicente governante dell’invadente congiunto.

‘Il cappotto di astrakan’ è chiuso  nell’armadio della stravagante Maria Lenormand, che accoglie con esagerata generosità nella sua casa parigina il timido Piero (Dorelli), giunto per una vacanza da, indovinate da dove, eh sì, Luino.

Il pastrano, di proprietà di un misterioso e sempre assente Maurice, finisce presto, ma è solo un prestito, sulle spalle dell’ospite, che, scoperto casualmente un preoccupante diario, ritiene più saggio defilarsi per puntare sulla fascinosa pittrice Valentine (Carole Bouquet). Peggio, come si suol dire, che andar di notte.

Due film senza pretese, leggeri e divertenti, l’uno che vira deciso sul rosa, l’altro con accentuate cadenze da thriller.
Un grande attore, sempre maltrattato dal cinema, è Walter Chiari, protagonista del modesto ‘La banca di Monate’, girato da Francesco Massaro nel 1976. Monate, per chi non lo sapesse, è nel Varesotto, quindi più che mai in zona Chiara, dal cui racconto omonimo il film è l’estratto.

La storia è presto detta: l’arrogante industriale dolciario Santino Paleari (Gigi Ballista) fonda una banca di cui nomina direttore il manovrabile ragioniere Adelmo Pigorini (Chiari), oppresso dalla poco seria moglie Melissa (Magalì Noel) e padre della matrimoniabile oca Simona (Lia Tanzi). E la trama prende un’improvvisa svolta poliziesca.

Una commedia senza infamia e con scarsa lode, per aggiornare un antico e abusato modo di dire.
Per chiudere il settetto chiariano, ecco ‘Il piatto piange’ (Paolo Nuzzi, 1974) e ‘Una spina nel cuore’ (Alberto Lattuada, 1986).

Il primo, è stato girato, roba da non credere, a Luino, e ambientato negli anni Venti. Si narrano le amene serate, anzi nottate, passate da un gruppo di vitelloni locali al tavolo dello chemin de fer, nella bisca ricavata nella cantina dell’Hotel Metropole. Pezzi forti del film l’interpretazione della meteora cinematografica, ex Brutos, Aldo Maccione (nel ruolo del chiacchierone rubacuori Càmola) e il candido culetto nature della seducente Agostina Belli (è Ines, la miss del paese).

Mostra ben più del fondoschiena la bellissima francesina Sophie Duez, scoperta nel senso più ampio del termine, dall’esperto in lolite Alberto Lattuada, che in ‘Una spina nel cuore’ (1984), nonostante il titolo, non riesce a però pungere come nel suo precedente ‘Venga a prendere il caffè…da noi’.

Rispetto al romanzo di Chiara, c’è un robusto salto temporale in avanti (dagli anni Trenta ai giorni nostri) e un ancor più notevole salto qualitativo all’indietro. Già perchè il figlio d’arte Anthony Delon (Guido) nella parte del cinico spennatore di polli (a poker) recita peggio di papà e le finezze psicologiche del romanzo si annacquano in un pasticcetto erotico-sentimentale di rara inconsistenza.

Certo che il lago d’Orta è uno splendore e la Duez indimenticabile. Non per il talento, beninteso.

Massimo Bertarelli