I “percorsi del suicidio” di cinque poetesse del ‘900

“Sappiate che esistono solo omicidi.

Al mondo nessuno si è mai suicidato!”

(E.Evtushenko)

 

 

Le motivazioni che possono indurre una persona a troncare volontariamente il percorso della propria esistenza possono apparire, ad un’analisi superficiale, molteplici, ma nel caso degli artisti esiste un quid comune, una sorta di filo conduttore che accomuna il compimento di questo gesto estremo. Una delle “categorie” che purtroppo detiene il triste primato nel numero di suicidi è senza dubbio quella degli scrittori, soprattutto poeti. Tra questi spiccano nomi di poetesse di varie nazionalità; ne considereremo alcune, le cui vite, al di là di una analisi biografica, sembrano seguire un copione comune: la realtà discrepante da un immaginario proiettato verso un assoluto irraggiungibile. Se il divario che si viene a creare tra lo scrittore e la sua produzione rimane nei limiti di una accettabile sopportabilità del reale,  si viene a instaurare un relativo equilibrio, ma se questo equilibrio va ad infrangersi e non riesce più a trovare una corrispondenza neppure nelle proprie opere, la vita “trasferita” viene a mancare ed ecco il tuffo diretto nella trascendenza, là dove esiste la speranza di un ricongiungimento con una pace sconosciuta nella quotidianità. La propria produzione diventa la parte vivente di un sé che non trova più corrispondenza, non si realizza nulla che possa in qualche modo tenere ancorato il corpo all’esistenza, si cerca disperatamente nell’essenza-assenza l’unica via d’uscita.

Sul significato dell’atto suicidario sono stati scritti svariati testi come quello di Emile Durkheim, padre della moderna sociologia, che nel suo libro “Il suicidio”(1897) svolse un’accurata analisi sull’argomento, seguendo un aspetto prettamente sociologico di notevole portata per l’epoca. Non dimentichiamo l’esistenza, e qui ne parla il Durkheim, di un suicidio “imitativo” al quale però egli assegna una percentuale bassissima come fattore induttivo.

 Lo scrittore Guido Morselli scrisse un brevissimo “Capitolo sul suicidio” (1) nel quale, oltre ad analizzare le motivazioni dell’atto diede a questo un profilo ineluttabile, una sorta di condanna contro la quale il libero arbitrio non sarebbe valso. Per  Morselli  “La vita, nel suo senso migliore, è fiducia nell’utilità e possibilità del nostro parteciparvi, in quanto ravvisiamo le condizioni per cui la nostra presenza quaggiù può essere attiva e benefica; venendo meno quelle condizioni, spegnendosi quella fiducia, la vita individuale si riduce a mera esistenza organica”, e definisce il suicidio una “condanna a morte della cui esecuzione il giudice incarica il condannato”.  Anni dopo, nel 1973, si tolse la vita.

James Hillman scrisse “Il suicidio dell’anima”, pubblicato nel 1964, nel quale cercò una profonda comprensione di quest’atto finale, con un tentativo di restituirgli se non altro una “dignità” , in una ricerca analitica scevra di giudizi e pregiudizi “L’analista non si schiera né per la vita né per la morte; si schiera per l’esperienza di questi due opposti.”

Nel 1979 uscì un libro dello psicanalista psichiatra Paul Mathis dell’ Ecole Freudienne di Parigi che storicamente fu il primo scritto intorno al suicidio perpetrato soprattutto nell’ambito dell’arte, in particolare nella “scrittura”. Il titolo, “I percorsi del suicidio”, anticipa un contenuto che si snoda attraverso un’acuta analisi delle suddette motivazioni che dopo un percorso di sviluppo fanno maturare il germe che da anni  era stato protetto dal suo manifestarsi. Mathis scava nelle ragioni che portano alla “necessità” di scrivere e presume che oltre alla ricerca di una compiutezza formale vi sia un compimento di sé attraverso l’opera. Inoltre introduce il concetto di “maschera letteraria” che impedisce di comprendere a fondo quanto lo scrittore “non scrive”: “L’opera d’arte è la maschera ingannatrice e vera, in un dire a metà tra il desiderio e il reale.” Ma aggiunge: ”Lo scrittore non è sicuro di arrivare attraverso la scrittura a sciogliersi dalla pulsione di morte. Il suo rapporto con la morte rimane lancinante, oscuro, poco chiaro. In un primo tempo si potrebbe pensare che scrivere significhi proteggersi dalla morte” (2).

In alcuni casi lo scrittore, trasferisce la sua pulsione di morte nei personaggi dei suoi romanzi, fa loro maneggiare armi, li spinge dopo lunghe sofferenze ad un angoscioso corteggiamento della morte e a commettere omicidi o suicidi. “Il giovane Werther si suicida ma Goethe giunge alla vecchiaia. Il Werther ha provocato suicidi di adolescenti. L’immaginario del romanzo si scontra con l’immaginario del lettore e determina il passaggio all’atto. Goethe con la scrittura si è protetto da una condotta suicida?”

 

La poesia, la vera poesia, che, anche se spesso considerata un po’ a latere della grande letteratura, ha però una caratteristica vitale, e cioè la sua “autenticità” che la rende genuina anche se talvolta di non immediata comprensione. La poesia femminile, in particolare, più di quella maschile, come osserva acutamente Paola Mastracola (3), appare “costruita sulla ricerca della verità: innanzitutto sulla ricerca della propria verità, di ciò che nella propria vita è “vero”; scrivere è riflettere su se stesse, riflettersi, piegarsi dentro e lì dentro guardare a costo di trovare il buio e l’orrore”. Il “coraggio dello sguardo” porta le poetesse del 900 ad indagare su se stesse, con autoanalisi spesso spietate ed una energia verbale violenta e dissacratoria, ma sempre basate sull’amore per la verità da scoprire, da indagare e poi raccontare per quello che è realmente senza veli e nascondimenti di comodo. La liberazione da stereotipi e la ricerca spasmodica e quasi disperata del vero, dell’autentico, è sovente percorsa “fino in fondo, fino alle estreme conseguenze: la follia ed il suicidio”(3). Non è un caso che molte poetesse si siano date volontariamente la morte ed alcune abbiano anche a lungo “flirtato” durante la vita con la soluzione estrema: delle cinquantacinque poetesse raccontate nell’antologia citata (3), undici si sono suicidate, una percentuale, il 20%, molto elevata che conferma quei “percorsi del suicidio” accennati precedentemente. Parliamo brevemente di alcuni casi emblematici di questo “approdo” alla morte, una ribellione estrema alla vita comune che si conclude quasi necessariamente col rifiuto della vita stessa.

Nadia Campana era una ragazza molto bella nata a Cesena nel 1954, laureatasi nell’anno accademico 1977-78 a Bologna con una tesi sul poeta Antonio Porta avendo come relatore lo scrittore Luciano Anceschi.  Va a Milano dove tenta di immergersi nella vita letteraria, scrive poesie, contatta poeti della sua generazione, pubblica  alcune liriche su una rivista romagnola (L’altro versante) nel 1979 e poi su una romana (Prato pagano. Giornale di nuova letteratura) nel 1985. Legge Emily Dickinson e ne rimane abbacinata. Come scrive Gabriella Sica “Ne sarà segnata per sempre, travolta da quel contrasto tragico tra la passione dell’immensità e la povertà del quotidiano, tra gioia e dolore” (4). Le sue prime opere risentono dell’influsso della Dickinson di cui traduce 140 poesie che pubblica nel 1983 col titolo “Le stanze d’alabastro” riprendendo l’inizio di una poesia “mortuaria” della Dickinson (Safe in their Alabaster Chambers). Nell’introduzione Nadia cita il saggio di Paul Mathis, di cui abbiamo parlato, il che fa pensare che “i legami non tanto sotterranei con lo spettro del suicidio ci sono tutti”(4).  Nell’estate del 1984 raccoglie un gruppo di circa 50 poesie, alcune già pubblicate ma in gran numero inedite nel libretto “Verso la mente” che uscirà postumo nel 1990. Qui il suo  linguaggio si fa più spezzato, senza pause, allusivo ma spesso sfuggente. Sovente ostico e di difficile interpretazione per gli scarti improvvisi, le interruzioni, i salti frequenti, i nessi che si sfaldano, le irregolarità dei versi. Scrive: “Punta tenera di un dardo/ ora io esisto ancora/ sfinita dal correre è vero,/ mi porti sulle ossa/ finché la notte non mi contrari più/ madre ogni minima cosa”.

Nadia conosceva la poesia e la vicenda umana di Marina Cvetaeva e ne parla: ”Marina mi prende troppo, e mi fa un po’ paura. Questo perché, se non si è un po’ distaccati, si rischia di balbettare. Spero che questa paura non sia troppo grande”. Inoltre amava la poesia di Antonia Pozzi che sentiva affine al suo modo di sentire, e quindi alla difficoltà di dare un ordine alla propria esistenza, segnata dal dolore per la morte prematura del padre, per trovare un’armonia ed un equilibrio impossibile. Sicuramente è azzardato pensare che queste due letterate abbiano potuto essere “maestre di suicidio” per Nadia, ma sicuramente il loro messaggio di poesia e di vita fu recepito profondamente dalla poetessa di Cesena, così feribile ed affamata di affetto.  Nadia si suicidò, a 31 anni, la mattina del 6 agosto 1985 ad un incrocio di tangenziali alla periferia di Milano. Si era lanciata nel vuoto dal ponte di via Corelli: era volata giù per potere risalire, “scendere con il corpo perché si levasse la poesia” (4). I versi che Vittorio Sereni aveva scritto per Antonia Pozzi, morta suicida nel 1938 vicino a Milano, sembrano accomunare a distanza di quasi 50 anni le vite difficili ed il destino terminale di Antonia e Nadia:  “All’ultimo tumulto dei binari/ hai la tua pace, dove la città/ in un volo di ponti e di viali/ si getta alla campagna/..…./Pace forse è davvero la tua/ e gli occhi che noi richiudemmo/ per sempre ora riaperti/ stupiscono/ che ancora per noi/ tu muoia un poco/ ogni anno/ in questo giorno”.

 

Antonia Pozzi era nata a Milano nel 1912 da una famiglia facoltosa dell’alta borghesia, in un ambiente raffinato dove la cultura si intrecciava con l’amore per il mare e soprattutto per la montagna. Allieva di Antonio Banfi all’Università di Milano, stringe una fervida amicizia con Vittorio Sereni e Luciano Anceschi. Inizia a scrivere poesie che però i suoi amici intellettuali, come Enzo Paci, Remo Cantoni e poi Dino Formaggio, della cerchia di Banfi, non apprezzano pienamente. Al liceo si innamora perdutamente del professore di latino e greco, amore che sarà testardamente osteggiato dal padre ma che durerà ininterrotto durante la sua breve vita. Ricorrerà in modo quasi ossessivo nelle lettere, nei diari, nelle poesie: “Nell’aria della stanza/ non te/ guardo/ ma già il ricordo del tuo viso/ come mi nascerà/ nel vuoto/ ed i tuoi occhi/ come si fermarono/ ora – in lontani istanti -/ sul mio volto”. Rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, non “secondo il cuore, ma secondo il bene” come scrive Antonia per ubbidire ai diktat del padre. Ma resterà l’unico vero e grande amore anche quando cercherà, per sfuggire all’angoscia del ricordo, altre avventure nella sua tormentata esistenza; a quel professore dedicherà tutta la sua opera poetica . Le motivazioni del suicidio della Pozzi “non si possono ridurre ad una delusione sentimentale, piuttosto vanno cercate nella difficoltà di coniugare spirito (poesia) e vita, Geist e Leben per un animo tanto appassionato e non incline al compromesso, e in quel terribile “male di nervi”, come lei lo chiamava nell’ultima lettera ai genitori, “che mi impedisce di vedere equilibrate le cose della vita” (5).

Nella poesia “Novembre” c’è già un accenno ad un gesto estremo: “E poi – se accadrà ch’io me ne vada -/ resterà qualche cosa/ di me/ nel mio mondo -/resterà un’esile scia di silenzio/ in mezzo alle voci -/un tenue fiato di bianco/ in cuore all’azzurro -//Ed una sera di Novembre/ una bambina gracile/ all’angolo di una strada/ venderà tanti crisantemi/ e ci saranno le stelle/ gelide, verdi, remote -/Qualcuno piangerà/ chissà dove – chissà dove -/ Qualcuno cercherà i crisantemi/ per me/ nel mondo / quando accadrà che senza ritorno/ io me ne debba andare”. Ed ancora nella poesia “La vita” del 18 agosto 1935 : “Alle soglie d’autunno/ in un tramonto/ muto // scopri l’onda del tempo / e la sua resa / segreta //come di ramo in ramo / leggero / un cadere d’uccelli/ cui le ali non reggono più”. 

Antonia amava andare in bicicletta e proprio in bicicletta, il 3 dicembre 1938, tornando dalla scuola milanese dove insegnava, si diresse verso il prato antistante l’Abbazia di Chiaravalle, si adagiò sulla neve dopo avere preso dei barbiturici, e si addormentò “sola come la prima anima della terra”. Sarà trovata da un custode alle prime luci della sera. Il padre negherà la morte “scandalosa” per suicidio attribuendola a polmonite, distruggerà il testamento della figlia, rimaneggerà anche molti scritti e poesie di Antonia allora del tutto inedite.  Passeranno quasi cinquant’anni prima che l’opera poetica di Antonia Pozzi potesse raggiungere nella letteratura italiana il posto che merita; uno dei pochi intellettuali dell’epoca ad averne colto in pieno il valore era stato Eugenio Montale che, riferendosi ad Antonia, aveva parlato del suo “bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina”.

 

Amelia Rosselli, figlia dell’intellettuale antifascista Carlo Rosselli barbaramente assassinato in Francia insieme al fratello nel 1937 su mandato di Mussolini, nasce a Parigi nel 1930. Il trauma per la fine brutale del padre e dello zio la tormenteranno per tutta la vita e contribuiranno in modo determinante ai disturbi mentali ed agli esaurimenti nervosi che le causeranno ripetuti ricoveri in clinica. Con la morte della madre nel 1949 le sue condizioni di salute peggioreranno ulteriormente causandole una forma di schizofrenia paranoide, inoltre nel 1969 si manifesteranno i primi sintomi del morbo di Parkinson. Durante gli anni della guerra vive in Inghilterra e poi negli USA;  rientra in Italia nel 1946 e si stabilisce a Roma nel 1950. Inizia a frequentare gli ambienti culturali romani, conosce Carlo Levi e Rocco Scotellaro, e comincia a  collaborare a riviste come “Botteghe Oscure” ed il “Verri”. Alcune sue poesie, pubblicate su “Menabò” attraggono l’attenzione di Andrea Zanzotto, di Giovanni Raboni  e di Pasolini; scrive negli anni sessanta recensioni letterarie sull’Unità e su Paese Sera. Nel 1964 esce la sua prima raccolta di poesie dal titolo “Variazioni belliche” a cui segue la raccolta “Serie ospedaliera”, il lungo poema “Impromptu”  ed altri scritti e saggi. Esperta ed appassionata di musica, nonché a suo agio con la lingua francese ma soprattutto inglese, ha una conoscenza profonda della letteratura anglosassone. Si innamora di Emily Dickinson di cui traduce dieci poesie; scrive Gabriella Sica (4): “In fondo, sia le poesia di Amelia che di Emily sono veri atti di terrore, splendide orchestrazioni visive e sonore del tragico, come se l’una avesse annunciato l’altra illuminandosi poi a vicenda”. Tra le due poetesse, nate ad un secolo esatto di distanza (1830 e 1930), c’è un’affinità di spirito che investe anche il senso religioso della vita e della giustizia, ma anche una profonda affinità letteraria e di vita, a cominciare dal rapporto con genitori “evanescenti” come dice Amelia, che le lasceranno sole, sempre più immerse in uno spazio mentale inquieto e sofferente. Tra le sue carte, non a caso, si troverà la fotocopia de “Le stanze d’alabastro” di Nadia Campana. Dario Lodi (5) così descrive la poesia di Amelia: “la Rosselli fu soprattutto un essere umano notevole, sotto molti aspetti esemplare. La sua poesia è faticata, ripiegata su se stessa, orgogliosa e disperata. Sta in un labirinto, da cui non vuole uscire. Ci sta con stupore, ma ci sta bene e ce lo comunica con passione discreta, trattenuta, grave, enigmatica. Una poesia viva in sé, chiusa in sé, con lampi verso il cielo quasi involontari. E’ una poesia da leggere e rileggere per cercare di comprendere una autentica sofferenza”.

Amelia si suicida l’11 febbraio del 1996, lo stesso giorno in cui Silvia Plath, che la Rosselli aveva tradotto ed amato, si era tolta la vita 33 anni prima, gettandosi dal quinto piano, dalla finestra della cucina della sua piccola mansarda in via del Corallo dove abitava, vicino a piazza Navona. I suoi disturbi mentali l’avevano portato in maniera ricorrente a pensare al suicidio. Soffriva di ossessioni persecutorie, racconta il cugino Aldo Rosselli. Tre giorni prima era uscita da una casa di cura e sembrava star meglio. “La poetessa era spesso ospite di un giro di amici, che tentavano di colmare la sua grande solitudine. Senza successo. Quegli incubi dell’ adolescenza continuavano a tormentarla. Ieri il suicidio è stato tenacemente inseguito per ben due volte. Prima ha tentato di buttarsi da un terrazzino interno dell’ edificio, fuori della sua mansarda. Qualcuno le ha gridato di fermarsi, di tornare a casa. Amelia, docile, un po’ stordita, ha obbedito. Poi la telefonata a un’ amica cara,…..- , alla quale confida il suo disagio, la sua disperazione. “Aspetta, stai calma. Vengo subito da te”. Le parole non servono. Una corsa, l’ arrivo in via del Corallo, una porta spalancata, una sedia appoggiata alla finestra….” (6). Il commento di Enzo Siciliano da una chiave di lettura profonda di questo suicidio: “La sua stessa poesia forse l’ aveva fin troppo soggiogata e confinata anche da se stessa. Accade spesso che la poesia possa far torto alla persona del poeta: era questo il caso di Amelia”.

Sulla speranza “disperata” Amelia aveva scritto: ”Stona la vita/ si spegne da sé/ la speranza si spiuma/ faticosa a mettersi insieme/ non ne vuol più sapere// i pensieri sono poi ovali, o opachi”. Ed ancora: ”Mente separami dalla materia/ non perdere tempo, perdilo/ se devi, sulle colline/ della disperazione”.

 

Un caso interessante è quello della poetessa Sylvia Plath nata a Boston nel 1932 da madre austriaca e padre tedesco emigrato negli USA a 16 anni. Sylvia ha 8 anni quando le muore il papà; ne riporta un trauma che influirà pesantemente sui periodi di acuta depressione che si ripeteranno durante tutta la sua breve vita. Inizia a scrivere poesie che pubblica su giornali minori. Si laurea nel 1955 a pieni voti con lode allo Smith College del Massachussets, ma già l’anno precedente aveva fatto il primo tentativo di suicidio ed era stata ricoverata in un ospedale psichiatrico per disturbi diagnosticati come bipolari. Con una borsa di studio va all’Università di Cambridge dove conosce il poeta inglese Ted Hughes che sposa nel 1956. Si spostano negli Stati Uniti dove Sylvia frequenta a Boston i corsi di “creative writing” del poeta Robert Lowell, considerato il padre della poesia “confessionale”, che avranno una grande influenza sul suo stile poetico. Lì conosce la poetessa Anne Sexton, anche lei rosa dal tarlo del suicidio,  con la quale scambierà i risultati dei rispettivi tentativi di togliersi la vita. Anne Sexton si uccide nel 1974. Tornano in Inghilterra essendo Sylvia incinta di Frieda, nata nel 1960, e nell’ottobre dello stesso anno pubblica la sua prima raccolta di poesie “The Colossus” . Dopo un aborto nel 1961 a cui farà riferimento in alcune poesie, nasce nel gennaio del 1962 il secondo figlio Nicholas. Nel giugno dello stesso anno la Plath tenterà di suicidarsi uscendo di strada con la sua auto e finendo in un fiume; il mese successivo scopre che il marito la tradisce con la bellissima Assia Wevill: la coppia si separa a settembre. La Wevill si suiciderà nel 1969 insieme alla figlia di quattro anni.

Sylvia, dopo il doloroso fallimento del matrimonio, affitta un appartamento a Londra dove aveva abitato William Butler Yeats, il che le sembra di buon auspicio, e vi si stabilisce con i suoi due bambini. A partire da ottobre ha un’esplosione irresistibile di creatività, con poesie tumultuosamente composte anche in ragione di due o tre al giorno, che andranno a costituire la sua opera maggiore, “Ariel”, pubblicata postuma nel 1965. Intanto le crisi depressive diventano sempre più frequenti e disperate, contrassegnate da una agitazione costante, insonnia, pensieri suicidi ed una totale incapacità di affrontare la normale vita di tutti i giorni. Sylvia Plath viene trovata morta l’11 febbraio 1963 con la testa infilata nel forno col gas aperto. Prima aveva sigillato con cura la camera dei bambini per evitare che il gas vi potesse penetrare, ed aveva preparato sui rispettivi comodini  la loro colazione. Aveva 30 anni. Nelle poesie, scritte negli ultimi mesi della sua vita “Sylvia Plath diviene se stessa, diviene un’entità immaginaria, appena creata, creata fieramente e sottilmente….non un individuo, né una donna, né certo un’altra “poetessa”, ma una di quelle grandi eroine classiche, più che reali, ipnotiche”, così Robert Lowell scrive nell’introduzione all’edizione originale del volume Ariel nel 1966 (7). Queste poesie, così personali, “riflettono una controllata allucinazione, l’autobiografia di una febbre”. Non sono l’esaltazione di una vita  particolarmente intensa, di una corsa affannata, ma dicono semplicemente “che la vita, anche quando è disciplinata, non vale la pena di essere vissuta”. E così, quasi alle soglie della morte, col garbo estremo della sua timidezza, difende la sua intimità intellettuale dall’invadenza di una realtà priva di luce e di senso. In alcuni versi della splendida poesia “Lady Lazarus”, contenuta nella raccolta Ariel, la poetessa americana sembra già giocare con una franchezza disarmante con la morte: “ La prima volta successe che avevo dieci anni./ Fu un incidente.// Ma la seconda volta ero decisa/ A insistere, a non recedere assolutamente./ Mi dondolavo chiusa// Come conchiglia./ Dovettero chiamare e chiamare/ E staccarmi via i vermi come perle appiccicose.// Morire/ è un’arte, come ogni cosa./ Io lo faccio in un modo eccezionale.// Io lo faccio che sembra come inferno./ Io lo faccio che sembra reale./ Ammetterete che ho la vocazione”. Ma leggendo attentamente si vede che tutta la poesia è in realtà una sofisticata esplorazione della responsabilità che tutti noi abbiamo nei confronti della nostra reciproca infelicità, e non soltanto una terribile e disperata testimonianza personale sul suicidio.

 

Non è semplice parlare di Marina Ivanovna Cvetaeva. Le caratteristiche del suo carattere,  la profondità del suo pensiero, il suo agire focoso e passionale, uniti ad un perfezionismo nell’espressione lirica quasi ossessivo e ad una vita costellata da eventi terribilmente drammatici, rendono il suo vissuto un universo molto complesso. Già dall’adolescenza  fu definita  decisa, indipendente, ribelle, anticonformista, da alcuni perfino capricciosa, ma dotata di un’intelligenza vivissima, a sei anni scriveva già poesie in russo, francese e tedesco. Nacque a Mosca l’8 ottobre 1892; il padre era un importante filologo e storico dell’arte, e la madre una pianista di talento. Trascorse quindi l’infanzia in un ambiente ricco di sollecitazioni culturali avendo avuto anche il privilegio, in giovanissima età, di poter frequentare corsi di studio in Svizzera, Francia Germania e Italia e di poter perfezionare la lingua tedesca e quella francese, per poi proseguire gli studi in Russia. Lesse di nascosto, ancora adolescente, l “Eugenio Onegin” di Puškin. Più tardi, in un saggio su Puškin, nel 1937, Marina Cvetaeva scrisse che quell’amore non riuscito descritto nel libro “predeterminò in me tutta la passione per l’amore infelice, non reciproco, impossibile. Da quel preciso istante non ho voluto essere felice e con questo mi sono condannata – al nonamore”. Il nonamore ha vissuto dentro i suoi molti amori, il nonamore cresceva perché l’amore era incompatibile con la vera ossessione della sua vita: la scrittura.

Gli anni successivi la Cvetaeva frequentò poeti e personaggi famosi nell’ambito letterario. Pubblicò a sue spese nel 1910, in tiratura limitata, il primo libro di poesie: “ Album Serale” (poesie scritte tra i 15 e 17 anni) che fu subito notato da famosi poeti dell’epoca,  tra questi Volosin che la invitò presso la sua casa-convitto frequentata da letterati. Fu qui che, all’età di diciassette anni incontrò un giovane studente di un anno maggiore di lei Sergeij Efron che sposerà, lo stesso anno, contro il parere del padre di lei.

Nel 1912 nacque la prima figlia Ariadna (Alja). Nel 1916 il poeta Osip Mandel’stam si innamora perdutamente di lei dedicandole alcuni dei suoi migliori versi. Il rapporto si esaurisce rapidamente. Durante la rivoluzione di Febbraio del 1917 la Cvetaeva si trovava a Mosca e fu testimone della sanguinosa rivoluzione bolscevica di ottobre. La seconda figlia, Irina, nacque in aprile. A causa della guerra civile si trovò separata dal marito, che si unì, da ufficiale, ai bianchi; lo rivedrà soltanto nel 1922. A venticinque anni, dunque, era rimasta sola con due figlie in una Mosca in preda ad una terribile carestia, senza riuscire a conservare il posto di lavoro che il partito le aveva “benevolmente” procurato. Durante l’inverno 1919-20 fu costretta a lasciare le figlie in un orfanotrofio, e la minore, Irina vi morì nel febbraio per denutrizione. Quando la guerra civile ebbe fine, la Cvetaeva riuscì nuovamente a entrare in contatto col marito e a raggiungerlo all’Ovest. Nel maggio del 1922 emigrò a Praga passando per Berlino.  A Praga la Cvetaeva visse felicemente con Efron dal 1922 al 1925. Nel febbraio 1923 nacque il terzo figlio, Mur.  Nell’autunno del 1925 partì per Parigi, dove trascorse con la famiglia i successivi quattordici anni. A Parigi vivrà poveramente e si andrà progressivamente isolando data la scarsa accoglienza dei suoi scritti da parte dell’ambiente culturale francese che tenderà ad emarginarla dai circoli letterari. Inoltre il marito passa dalla parte dei Soviet e viene accusato di avere partecipato all’assassinio di un figlio di Trotzkj. Rientrato in Russia viene arrestato e fucilato come “nemico del popolo”.

Per la Cvetaeva il marito e i tre figli   furono gli amori “sacri” della sua vita e, almeno da parte sua, non entrarono mai in collisione con la lunga catena dei suoi “amanti”. In realtà gli “amanti” furono principalmente frutto delle sue fantasticherie, attraverso le quali attribuiva a questi soggetti caratteristiche sublimi destinati immancabilmente a crollare nell’impatto con la realtà. Ma queste passioni “brucianti” le erano vitali e nutrivano la produzione della sua poesia. “Quello che voi chiamate amore (sacrificio, fedeltà, gelosia) tenetelo in serbo per gli altri, per un’altra – io non ne ho bisogno. Io posso amare solo la persona che in una giornata di primavera a me preferirà una betulla”. Lei preferiva gli idilli cerebrali: “amare gli assenti”.

“E’ un ‘legame’? Non lo so. Io sono legata anche dal vento tra i rami. Dalle mani fino alle labbra – e dov’è il confine? E c’è – un confine?”. Marina Cvetaeva non aveva confini e amava senza confini. Nel 1922 aveva iniziato uno scambio epistolare che si protrarrà per ben quattordici anni con Boris Pasternak di cui s’innamorò perdutamente. Lei aveva trent’anni, lui trentadue: diventarono indispensabili l’uno per l’altra. Forse lui solo riuscì davvero ad amarla come lei chiedeva di essere amata. Lei gli scrisse “Come vivere con un’anima – in una casa? Nel bosco – forse – sì”. “Tu mi sei affine tutto, da parte a parte, terribilmente e angosciosamente affine, come io a me stessa – senza asilo, come le montagne. (Non è una dichiarazione d’amore: di destino)”.

 Per quasi un anno, precisamente nel 1926, intrattenne anche una fitta corrispondenza con Rainer Maria Rilke, dal 3 maggio 1926 fino ad agosto dello stesso anno. Le loro lettere furono di un’intensità sublime.  Il 29 dicembre Rilke muore di leucemia nel sanatorio svizzero di Val-Mont. La prima lettera di Rilke conteneva una copia dei Sonetti a Orfeo e delle Elegie Duinesi, accompagnate da una dedica: “A Marina Ivanovna Cvetaeva. Ci sfioriamo. Con cosa? Con ali.”   La Cvetaeva si innamorò perdutamente  di lui e delle sue opere. “Cosa voglio da te ? Niente. Tutto.” gli scrive. “Voglio leggerezza, libertà, comprensione – non trattenere nessuno e che nessuno mi trattenga”; “E’ così raro che le mie mani vogliano qualcosa”.  A differenza di Rilke, che sacrifica il rapporto col resto del mondo e si ritira in solitudine, credendo sia l’unico modo per aderire alla vocazione poetica, Marina sente la necessità di instaurare forti legami con gli altri “Ciò che amo di più di ogni altra cosa al mondo è l’essere umano, l’essere vivente, l’anima umana-più della natura, più dell’arte, più di ogni cosa “.

Ma sembrerebbe poi doversi quasi giustificare di fronte a questa sua posizione: “Il verbo visibilmente mi ama molto e io per tutta la vita non faccio altro che tradirlo !- A vantaggio degli umani !”

Per contro si trova a doversi confrontare con un dualismo esistenziale ben più arduo, quello di riuscire a creare un ponte tra il suo vivere esclusivamente ripiegato sulla sua anima e il far fronte alla quotidianità della vita che peraltro fu con lei particolarmente spietata. “Ho paura che la sventura (il destino) sia in me: io non amo, non so amare nulla veramente, fino in fondo, cioè senza fondo – a parte la mia anima, e cioè l’angoscia, che trabocca e si riversa per tutta la terra e oltre i suoi confini. In tutto – in ogni persona e sentimento –io sto stretta, come in ogni stanza di una tana o di un castello. Io non riesco a vivere, e cioè a durare, non so vivere nei giorni e ogni giorno vivo fuori di me. È una malattia inguaribile e si chiama – anima.” 

Con Pasternak si incontrò a Parigi nel 1935, trascorsero insieme pochi giorni e il sogno a lungo rincorso  si sgretolò irrimediabilmente. Poco tempo dopo lei gli scrisse: “La nostra storia è finita” anche se lui continuò a rimanerle amico e a sostenerla fino alla fine.  Lei gli chiese se fosse prudente per lei tornare in Russia, come chiedeva il figlio. Nel giugno del ’39 si imbarcò a Le Havre per la Russia, dopo avere minuziosamente riordinato e affidato i manoscritti a persone di fiducia, chiaramente rendendosi conto di ciò che le poteva succedere. Con un presentimento, sapeva di tornare in patria a morire: “Quando sono salita sulla tolda della nave ho compreso che tutto era finito”.   Nonostante alcuni vecchi amici e colleghi scrittori la vennero a salutare, ella capì in fretta che per lei in Russia non c’era posto.  Gli altri la sfuggivano: lei era una ex emigrata, una “bianca”, aveva vissuto all’Ovest, e questo era un marchio infamante. Nell’agosto del 1939 sua figlia venne arrestata e deportata nei gulag. Quando l’estate successiva cominciò l’invasione tedesca, la Cvetaeva venne evacuata ad Elabuga, nella repubblica autonoma di Tataria. Qui si sentiva completamente abbandonata. Grazie ai vicini riusciva a raggranellare un po’ di cibo. Nell’ultimo anno di vita, Marina ormai  “sopravvive “ a stento a se stessa  e perde le ultime speranze di trovare un lavoro per continuare, se non altro, ad accudire il figlio Mur, l’unico amore rimastole. Allora compie il suo “atto eroico”: persi i “sacri affetti”, affondata ormai nella totale indigenza, affida ad un amico il compito di “crescere” suo figlio e si tuffa infine nelle braccia di quell’eterno da sempre agognato. Le ultime parole da lei indirizzate al Soviet del Fondo letterario, pochi giorni prima del suicidio, sono tragiche: “Al Soviet del Fondo letterario. Prego di darmi un lavoro di sguattera nella mensa che sta per aprirsi. M. Cvetaeva”.  La domenica 31 agosto del 1941, rimasta sola a casa, la Cvetaeva sale su una sedia, rigira una corda attorno ad una trave e si toglie la vita. Nessuno andrà al suo funerale. La tomba di Marina rimase sconosciuta, ma sotto uno dei pini dell’antico cimitero di Elaguba la sorella di Marina, Asja, mise una croce con la scritta: “In questo angolo del cimitero è sepolta Marina Ivanovna Cvetaeva ( 26 settembre 1892 -31 agosto 1941)”. Aveva sritto: “L’oro dei miei capelli /si sta facendo bianco a poco a poco / Non piangetelo! Tutto è già avvenuto, / tutto s’è già composto nel mio cuore”

E’ lecito definire eroico un atto finale quale il suicidio? Nel caso di Marina forse sì perché sicuramente avrebbe proseguito il suo cammino,  pur vissuto nel sogno, se non fosse che tutto, veramente tutto, si fosse accanito contro di lei. Un anno prima nel settembre del 1940 aveva scritto sul suo quaderno: “già da un anno cerco con gli occhi un gancio… Da un anno misuro la morte. Tutto è mostruoso e terribile. Ingoiare pasticche è disgustoso, buttarsi da una finestra è abominevole e ho un’innata ripugnanza per l’acqua. Non voglio spaventare nessuno (da morta), mi sembra di aver già paura, da morta, di me stessa. Non voglio morire. Voglio – non essere. Assurdo. Finché sarò necessaria… ma, Dio mio, come sono piccola, quanto poco posso fare! Vivere fino in fondo – è come masticare fino in fondo. Assenzio amaro.”

Nel suo ultimo anno di vita la Cvetaeva  aveva allacciato una relazione sentimentale col poeta Arsenij Tarkowskij, molto più giovane di lei. Per lui la Cvetaeva  rappresentò l’incontro più importante della vita, mentre per l’ormai disillusa poetessa lui non avrebbe rappresentato che uno dei suoi tanti sogni “sfatati” nel momento del risveglio alla “realtà”: “Il mio modo preferito di comunicare è ultraterreno: il sogno – vedere in sogno”.  La realtà àncora alla terra, alla casa, alla famiglia, ma la Cvetaeva non accetta la realtà perché le è ostile. Dice: “Io ho abituato la mia anima a vivere fuori dalla finestra,……ho fatto della mia anima la mia casa, ma mai la casa sarà la mia anima. Non ci sono nella mia vita, non sono a casa. L’anima in casa – a casa – per me è impensabile, proprio non ha senso”.

Per la Cvetaeva la realtà onirica, che si miscelava ai sogni ad occhi aperti e all’insonnia (caratteristica che condivideva con Tarkowskij), costituì il Life Motive della sua vita, quello che le permetteva l’evasione da una quotidianità troppo angosciante. Marina adorava i sogni ad occhi aperti, creare e sognare erano per lei la stessa cosa, al punto che l’insonnia diventò la sua musa. Nel 1926, dopo la morte di Rilke, aveva scritto “Io e te non abbiamo mai creduto nel nostro incontro qui sulla terra – come non abbiamo mai creduto in questa vita, non è vero?”

Il germe della morte per Marina, è forse già latente fin dalla giovinezza, come appare in questi versi scritti nel 1913, a 20 anni: «… Leggi – di ranuncoli/e papaveri colto un mazzetto -/che io mi chiamavo Marina/ e quanti anni avevo… Solo non stare così tetro,/ la testa china sul petto./ Con leggerezza pensami, con leggerezza dimenticami». 

 

 Francesco Cappellani e Tiziana Mainoli

 

1-      G.Morselli “Il suicidio”. Via del vento, Pistoia, 2004. A cura di Valentina Fortichiari

2-     P.Mathis “I percorsi del suicidio”. Sugarco edizioni, 1979

3-     G.Davico Bonino e P.Mastracola (a cura di) “L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del 900” Mondadori Oscar, 1996

4-     G.Sica “Emily e le altre”. Cooper editore, 2010

5-     A.E. De Gregorio “Antonia Pozzi e la poesia che ci guarda”. http://www.filidaquilone.it/num023degregorio.html

6-     D.Lodi “Le ossessioni di Amelia Rosselli”. http://www.homolaicus.com/letteratura/rosselli.htm

7-     ”Suicidio di una poetessa”. La Repubblica 12 febbraio 1996

8-     S.Plath “Lady Lazarus e altre poesie” a cura di G.Giudici. Mondadori, 1976