Perché il Giappone non riesce a lasciarsi alle spalle il “Decennio perduto”

Agli inizi del 1991 il Giappone, dopo circa tre decenni di miracolosa crescita economica seguita alla ricostruzione post-bellica, vide lo scoppio di una bolla speculativa (in particolare nei settori finanziario e immobiliare) che era andata gonfiandosi durante tutti gli anni Ottanta.

Da quel momento in avanti il Paese – che resta pur sempre, a tutt’oggi, la terza economia mondiale – è entrato in un periodo di recessione dal quale non è mai realmente riuscito a venir fuori.

Nonostante la crisi economica abbia raggiunto i suoi picchi di criticità nel periodo intercorso dal 1991 al 2002 (anni che la storiografia giapponese ha ribattezzato del c.d. “Decennio perduto”), ancora oggi, infatti, la “Corporate Japan” risente degli effetti di quella recessione.

Dopo il periodo d’oro degli anni Ottanta, durante il quale il Giappone cresceva con percentuali inimmaginabili in Occidente, lo scoppio della “bolla” nel 1991 ha portato il Paese in un periodo di recessione sia micro che macroeconomica che perdura tutt’oggi.

Il Sol Levante, infatti, è il Paese del mondo industrializzato con il più alto debito pubblico (ammontante circa al 240% del PIL) e, nonostante i timidi segnali di ripresa intravistisi nell’ultimo biennio, vi sono, a detta degli osservatori internazionali, preoccupanti segnali per i quali, prossimamente, il Primo Ministro Abe Shinzo potrebbe vedersi costretto a dichiarare il ritorno in “recessione tecnica” del Paese-arcipelago.

Per ripartire definitivamente, affermano i più qualificati analisti politico-economico-finanziari, il Giappone necessiterebbe, oltre che di grandi riforme del suo sistema produttivo, anche di riforme strutturali nell’apparato burocratico-amministrativo, che –secondo il parere di tali esperti – avrebbe contribuito fortemente a frenare la capacità innovativa di tutto il “sistema Paese” (1).

Impresa non facile, in uno Stato intimamente conservatore come il Giappone, nel quale certe posizioni acquisite e forti interessi corporativi – residuati del poco visibile, ma onnipresente “Neo-Confucianesimo” – sono estremamente ardui da rimuovere o anche solo modificare.

Una porzione della popolazione nipponica si duole del fatto che la società, nel corso degli anni, sarebbe andata deteriorandosi con la fine del sistema dell’impiego a vita e con la sostituzione del sistema di promozione sul lavoro basato sull’anzianità con altri basati sul rendimento e la produttività.

In passato, durante il periodo del boom economico, quasi tutti, in Giappone, si consideravano appartenenti alla middle class (2).

Il divario nei compensi fra coloro che si affacciavano al mondo del lavoro e i dirigenti non era troppo ampio e grande enfasi era posta – anche da parte dei media – sulla necessità e la convenienza collettiva di raggiungere una società uniforme, nella quale ciascuno poteva riuscire – avendone le capacità – ad accedere alle università più prestigiose, aprendosi, in tal modo, la strada verso il riscatto sociale.

La competizione era limitata dalle regole burocratiche e la piena occupazione quasi raggiunta.

Il protezionismo economico assicurava che le grandi imprese giapponesi non venissero più di tanto danneggiate sul mercato domestico dalla concorrenza proveniente dall’estero.

Come sostenuto dalla studiosa Elise Tipton, i vertici statali e governativi preferirono sacrificare la felicità individuale sull’altare della prosperità collettiva mentre il Giappone accresceva la sua forza economica.

Il vecchio sistema economico-produttivo del Sol Levante aveva certamente i suoi punti di forza, ma non erano tanti quanti venivano rappresentati: l’impiego a vita esisteva, in realtà, soltanto nelle più grandi e importanti corporations e non anche nell’immenso numero di piccole e medie imprese che costituiscono – in Giappone come nel resto del mondo – la base e il tessuto connettivo dell’industria manifatturiera nazionale.

Nelle grandi imprese, peraltro, i datori di lavoro si aspettavano un’assoluta fedeltà alla “kaisha” (l’azienda) in cambio della prospettiva dell’impiego a vita.

Questa situazione spesso comportava che i dipendenti erano costretti ad accettare trasferimenti di lavoro con breve preavviso e senza alcun riguardo delle esigenze personali e familiari. Tale sistema, in virtù del quale molti lavoratori – quasi esclusivamente di sesso maschile – venivano mandati in giro per il Paese, provocò molti scompensi nella vita di coppia dei giapponesi sposati, conducendo in molti casi alla “rottura” dei matrimoni.

I giovani, ancorché capaci e meritevoli, provavano un senso di frustrazione, quando la loro promozione sul posto di lavoro veniva ostacolata dai più anziani – e magari meno competenti – dirigenti che occupavano le posizioni gerarchiche più elevate.

Inoltre, se è vero che gli amministratori di punta delle società non percepivano dei compensi paragonabili a quelli dei loro omologhi in Occidente, è altrettanto vero che essi avevano a disposizione numerosi bonus e fringe benefits quali carte di credito aziendali senza limite di spesa, autisti privati, viaggi all’estero pagati e numerosi altri.

La competizione per accedere alle migliori università era – ed è rimasta – feroce, e gli adolescenti i cui genitori potevano permettersi di pagare le costose scuole preparatorie (“juku”, in giapponese) e assumere insegnanti privati risultavano fortemente avvantaggiati.

La società giapponese, anche nel periodo di massima espansione economica, non era dunque priva di classi sociali come molti hanno sostenuto.

I limiti alla concorrenza e il protezionismo economico delle industrie, dell’agricoltura e del commercio nipponici comportavano che il costo medio della vita in Giappone fosse significativamente più elevato che nel resto del mondo industrializzato.

Laddove alcune porzioni della popolazione – come le categorie degli agricoltori e le imprese edili – traevano importanti benefici da questo modo di amministrare il Paese, la salute dell’economia nipponica, lentamente ma inesorabilmente, ne risentiva, e veniva erosa dalla diffusa corruzione, dall’onnipresente burocrazia e dal protezionismo cui si è accennato.

La situazione non poteva durare e il Giappone, come “sistema Paese”, dovette accettare il fatto che, per vivere e operare in un mondo sempre più globalizzato, avrebbe dovuto necessariamente aprirsi a maggiori scambi con l’estero.

Il processo di “apertura” è stato lento e non può ancora considerarsi completato.

L’economista William Pesek – recentemente intervenuto a un dibattito tenutosi presso il Club dei Corrispondenti Esteri di Tokyo – sostiene che permangono, a tutt’oggi, numerosi difetti e distorsioni nell’economia e nella società giapponesi.

In primo luogo non v’è dubbio che il divario tra i ricchi e i poveri si sia allargato (seguendo una tendenza che, in realtà, è comune a tutto il mondo industrializzato), e che il numero di cittadini nipponici che si considerano appartenenti alla middle class sia drasticamente diminuito.

I disadattati della società, i disoccupati e i senza tetto si notano molto più di prima nelle città giapponesi, e molte più persone – rispetto al passato – necessitano dell’assistenza sociale.

Il disincanto circa quello che l’attuale società nipponica ha da offrire comporta, inoltre, effetti negativi su quei giovani che “non ce l’hanno fatta”, spingendoli, nei casi più estremi, ad auto isolarsi dalla società (il tristemente noto fenomeno dei c.d. “hikikomori”).

Coloro che non sono in grado di salire in cima alla scala sociale ed educativa tendono a sprofondare ulteriormente alla base della “piramide”, come sostenuto dalla sociologa Chie Nakane (3).

Questi soggetti sono maggiormente esposti al rischio di perdere qualsivoglia ambizione lavorativa e finiscono spesso per scegliere impieghi part-time, che consentono loro di avere più tempo libero. In alcuni casi, col passare del tempo e le prospettive per il futuro rimaste immutate, smettono di cercare un posto di lavoro “serio” e “sicuro”, andando a incrementare il numero dei c.d. NEETs (acronimo inglese che sta per “not educated, employeed, training people”, ovvero coloro che non studiano, non lavorano e non svolgono alcuna attività di tirocinio presso aziende).

Con il galoppante invecchiamento della popolazione in corso, i giovani lavoratori giapponesi del prossimo futuro ne risentiranno sempre più, perché dovranno lavorare più a lungo e più duramente per pagare le pensioni del crescente numero di anziani.

Dal momento che, anche in terra nipponica, le disparità sociali e di reddito fra la popolazione tendono ad acuirsi, piuttosto che a ridursi, potrebbe essere difficile raggiungere un consenso diffuso sulle politiche redistributive del reddito (problema che, dopo lo scoppio della crisi dei mercati finanziari statunitensi nel 2008, accomuna la maggior parte dei Paesi industrializzati).

In un simile scenario la coesione sociale, l’armonia (il c.d. “Wa”, in lingua giapponese) rischiano di rompersi, anche in un Paese, come il Giappone, che del rapporto collettivo e della forza del gruppo ha sempre fatto il suo punto di forza, il principio base da cui ripartire nei momenti di difficoltà.

Nel perseguire la sua opera di liberalizzazione e di riforma dell’economia, il Governo del Sol Levante dovrebbe riflettere maggiormente per trovare nuove strade finalizzate ad aumentare gli incentivi a favore delle fasce più deboli della popolazione e ad aumentare le opportunità d’impiego.

C’è bisogno, inoltre, che vengano erogati degli assegni familiari più corposi e che vengano costruite delle migliori strutture destinate alla cura dei bambini mentre i genitori lavorano (in Giappone si registra, da sempre, una grave carenza di offerta di asili nido, in proporzione all’altissima domanda).

L’invecchiamento della popolazione – e il conseguente aumento del numero dei pensionati – comporterà un necessario, quanto sgradito e temuto, aumento del gettito fiscale.

A tal proposito, da lungo tempo gli economisti giapponesi sostengono che le imposte che per prime necessiterebbero di un aumento sono quelle indirette, ma nell’opinione pubblica c’è il comprensibile timore che un aumento troppo anticipato o troppo elevato delle tasse sui consumi potrebbe rallentare ulteriormente la convalescente economia del Sol Levante.

Eppure, nonostante le numerose difficoltà, qualcosa si muove: negli ultimi dieci anni le imprese nipponiche sono diventate più “vivaci” e lo spirito imprenditoriale – anche fra i giovani – è stato stimolato dagli aumentati incentivi statali erogati a chi si assume il rischio d’impresa.

Il costo della vita – negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso il più alto al mondo – è diventato più competitivo a livello internazionale: fattore, questo, del quale hanno beneficiato sia le industrie che il commercio nazionali.

Infine, quella che un tempo, a livello sociale, era conosciuta come la “società della camicia di forza” per le poche libertà concesse al singolo di esprimersi nella propria individualità, è adesso decisamente più “libera” e le nuove generazioni sono più disposte a sfidare i “dogmi” e le idee dei loro genitori e nonni e a imboccare nuovi sentieri per la loro vita.

 

Edoardo Quiriconi

 

 

(1) Per comprendere appieno il funzionamento dell’apparato politico, economico, amministrativo e finanziario del Giappone si veda K. Van Wolferen: “The Enigma of Japanese Power: People and Politics in a Stateless Nation”, Random House, NYC, 1990, da molti autorevoli yamatologi considerato il miglior libro mai scritto in Occidente (e da un occidentale) sull’argomento. In alternativa, un’ottima lettura è rappresentata da A. Kerr: “Dogs and Demons: The Fall of Modern Japan”, Penguin Books, London, 2002. Molti degli spunti presenti in questo breve scritto provengono proprio dalle due illuminanti letture sopracitate.

 

(2) Si veda, per un dettagliato approfondimento circa la formazione della società moderna giapponese e i suoi problemi, E. K. Tipton: “Il Giappone moderno. Una storia politica e sociale”, Einaudi, Torino, 2011.

 

(3) C. Nakane: “La società giappponese”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.