Il pendolo italiano del sapere

Coinvolti, nostro malgrado, nelle polemiche elettoralistiche sulla proposta di evitare il pagamento delle tasse universitarie, ci sembra utile riportare il dibattito sull’importanza dei saperi organizzati, dall’animosità delle opinioni alla logica stringente dei fatti.

Per poter conoscere la situazione ed esprimere valutazioni possibilmente oggettive occorre evitare di iscriversi al partito dell’appartenenza ideologica e cercare di ascoltare, per provare a comprendere.

In primo luogo l’informazione italiana sull’università oscilla paurosamente tra affermazioni perentorie(le sedi sono troppe, o al contrario troppo poche; così come lo sono gli studenti e le risorse messe a disposizione) e domande dubitative.

Dal momento che viviamo nella società della conoscenza non è irrilevante comprendere quale  affermazione è quella corretta e parafrasando Kant, affermare che il sapere non è un mezzo per conquistare prestigio sociale e reddito, ma un fine che non rappresenta una delle svariate attività degli esseri umani, ma la sostanza stessa della nostra relazione con la realtà che ci circonda.

Per farlo è il caso di analizzare attentamente il quadro di riferimento, magari partendo dall’analisi comparata delle sedi e delle risorse e confrontarci con un paese simile al nostro per numero di abitanti e livello di sviluppo economico: la Gran Bretagna!

Il nostro sistema di formazione superiore è composto da sessantasette università statali, diciannove private e undici telematiche (97 totali); quello del Regno Unito di 161 complessive.

Anche nel merito poi del corpo docente e del personale amministrativo il nostro svantaggio è evidente; da noi i professori sono poco meno di 56500 e gli amministrativi poco più di 61600, mente per i britannici parliamo di quasi 185600 docenti e poco meno di 197000 amministrativi, per di più con un’età media inferiore alla nostra.

E’evidente che il “capitale umano” britannico è circa tre volte superiore al nostro e che questo gap riduce le potenzialità del nostro sistema formativo universitario, generando ricadute negative sulla ricerca, sull’innovazione e sulla competitività economica del nostro Paese.

Non è sorprendente poi se la percentuale dei laureati italiani è inferiore alla media dei paesi OCSE che nel suo ultimo rapporto sull’istruzione superiore ha evidenziato che nel nostro Paese solo il 18% dei 25/64enni è laureato, mentre la media OCSE è circa il doppio.

Oltre a questo siamo anche all’ultimo posto tra tutti i paesi europei nella fascia d’età tra i 25 e i 34 anni come laureati, con una percentuale di poco superiore al 24%, rispetto ad una media UE del 37,3%  e con anche il non invidiabile primato del maggior numero di studenti fuori corso, con svariate centinaia di migliaiadi individui.

Sembrerebbe un vero disastro, tuttavia a fronte di questi numeri non incoraggianti, ancora una volta emergono i paradossi del sistema Italia; infatti la ricerca universitaria italiana si colloca ai primi posti a livello internazionale per quantità di pubblicazioni scientifiche e per citazioni, con picchi di assoluta eccellenza quali quelli sulle Onde Gravitazionali.

In relazione con i principali paesi europei, l’OCSE certifica che i nostri ricercatori hanno il più elevato tasso di produttività con 800 articoli ogni mille ricercatori, contro una media europea di poco più della metà (450) oltre al maggior numero di citazioni (1800 invece delle 1450 della media UE).

Tutto questo risulta ancora più stupefacente se pensiamo che, come ha sottolineato la Corte dei Conti, il fondo per il finanziamento delle università è stato ridotto negli ultimi sette anni di circa l’11% e che complessivamente non supera lo 0,42% del PIL, contro l’1,5% di Germania e Francia.

Quindi, in conclusione, la contraddittorietà e il paradossale si confermano come la “cifra” del nostro Paese ed emergono in tutta la loro evidenza dai dati sopra riportati; non è con l’abolizionesemplificatoria, seppur meritoria, delle tasse universitarie che si possono affrontare i problemi dell’istruzione superiore e neppure con la sterile discussione sul numero delle sedi, sulla loro localizzazione e sui rapporti familistici e baronali che troppo spesso le università evidenziano.

Occorre, invece, essere consapevoli che la complessità del tema richiede proposte articolate e di medio periodo e non occasionalied episodiche che coinvolgano quanti più attori possibili; perchél’Italia ha la necessità dell’università come luogo del sapere e del saper fare ed è significativo che politica e società civile prendano coscienza di questo obbligo.

Le università sono utili al Paese perché ne innalzano il livello culturale e perché la scommessa del lavoro presente e futuro si gioca sul valore della formazione e sugli apprendimenti sequenziali e servono anche alle imprese perché sempre più la competitività si fonda sulla ricerca e l’innovazione che molte volte nascono proprio nell’ambiente universitario.

Luigi Pastore