Lo spirito del ‘94

Sento dire sempre più spesso che se il centro-destra vuole uscire dall’angolo, deve tornare allo “spirito del 94”.

Sono d’accordissimo.

Ma siccome è passata quasi una generazione, e i protagonisti dell’auspicato revival dovranno essere per forza di cose uomini e donne nuovi, forse può essere utile che una persona che ha vissuto quel periodo in prima linea spieghi alle nuove leve che cosa c’era ieri e temo invece che manchi oggi.

C’era, anzitutto, l’entusiasmo.

Noi “moderati” che per decenni eravamo stati costretti a votare DC, PSI, PSDI, PRI o PLI senza mai crederci davvero e vedendo quasi sempre deluse le nostre aspettative, abbiamo improvvisamente avuto la sensazione che si potesse voltare pagina.

Era comparso un uomo nuovo, i suoi fedelissimi – liberali DOC come Martino e Urbani – avevano prodotto un programma nuovo e coraggioso, c’era un sistema elettorale mai testato in Italia, c’era una contrapposizione netta tra la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto che voleva imporci un sistema ormai condannato dalla storia e un neonato e ancora un po’ informe blocco sociale che non lo voleva.

Non eravamo in molti a pensare di poter vincere, nonostante l’alleanza con la Lega al Nord e AN al Sud, ma nessuno si tirava indietro.

E quando, una notte, Silvio Berlusconi mi ha telefonato per chiedermi di “correre” (Ma dove vorrà mai che vada a quest’ora?, è stata la mia ptima reazione) non ho esitato ad accettare.

Ho chiesto una aspettativa da vice direttore del “Giornale” e mi sono messo a disposizione.

Mi toccò il collegio senatoriale di Bergamo, dove ho trovato un’altra dote fondamentale, oggi largamente assente: l’altruismo e la generosità.

Il nuovo partito, Forza Italia, era appena nato e già proliferavano i suoi club, aggregazioni spontanee di cittadini che volevano prendere in mano il proprio destino ed erano pronti a lavorare gratis per la causa.

Appena arrivato in città, un signore che non avevo mai visto prima in faccia (e che nel frattempo è diventato uno dei miei migliori amici) mi ha offerto di ospitare i miei uffici in un suo circolo in Piazza Vecchia.

Altre decine di persone sono venute ad accogliermi, offrendosi di organizzare eventi, distribuire materiale, accompagnarmi nei miei giri.

I nostri alleati della Lega, molto più forti di noi nella zona, all’inizio erano un po’ diffidenti per via del mio cognome meridionale.

Ma quando gli ho detto: “Tranquilli, ragazzi, io sono nato a nord di Bossi” le riserve sono cadute: ogni tanto cercavano di mettermi in difficoltà parlando in bergamasco stretto, ma io rispondevo in tedesco e tutto finiva in una risata.

Credo che da allora FI e Lega non abbiano mai più lavorato così bene insieme.

Una volta arrivato in Parlamento, ho provato un altro aspetto dello “spirito del 94”.

Su trentacinque membri del nostro gruppo parlamentare, solo due avevano avuto una precedente esperienza politica a livello nazionale.

Eravamo, per così dire, uno specchio perfetto della società civile in movimento.

C’erano imprenditori, avvocati, pubblicitari, commercianti, giornalisti, di tutto: persone che provenivano da esperienze diverse, avevano magari anche interessi diversi, spesso avevano abbandonato posizioni importanti, ma credevano tutti fermamente nello stesso obbiettivo: fare dell’Italia un Paese più liberale.

Nel famoso kit del candidato, su cui la stampa aveva non poco ironizzato, c’era un librettino azzurro con lo stemma tricolore in cui Giuliano Urbani e Antonio Martino, due dei fondatori del partito oggi relegati ai margini della scena, avevano mirabilmente raffigurato una Italia ideale, con tasse basse, poca burocrazia, una giustizia giusta e vera libertà.

Probabilmente era utopia, ma per noi, almeno fino a quando non abbiamo cominciato a scontrarci con la “macchina”, era il sogno da realizzare.

Insomma, lo “spirito del ‘94” ha cambiato, purtroppo non in maniera duratura, il modo non tanto di fare, quanto di concepire la politica.

Possiamo dire che vi ha introdotto un elemento rivoluzionario, nel senso buono della parola.

La colpa, grave, di quel nostro gruppo di pionieri – che ha dato vita al governo con il maggior numero di liberali di tutta la storia della Repubblica – è stato di non avere saputo trasmettere quella carica a un numero maggiore di concittadini e di esserci in qualche modo dispersi.

Credo che, neppure vent’anni dopo, i superstiti di quel gruppo non siano più di una decina, sostituiti via, via da politici “veri”, sopravvissuti alla tempesta  che aveva travolto la Prima repubblica, o da loro allievi.

Peccato: ma il rimpianto non mi impedisce di gridare, parafrasando il titolo di un libro di Capanna, “Formidabile quell’anno!”, non tanto per i risultati conseguiti, quanto per lo spirito con cui fu affrontato.

Se tornasse davvero, molte cose potrebbero ancora cambiare.

Livio Caputo