Lingue e federalismo svizzero

Come l’esemplare completezza del federalismo svizzero così anche la politica elvetica in campo linguistico è prima di ogni altra cosa l’esito di una filosofia, l’esito di quella concezione della comunità politica di matrice sostanzialmente medioevale, pre-moderna su cui ci siamo soffermati in ‘All’origine del federalismo svizzero’.

Secondo la logica dello Stato moderno portato a compimento dalla Rivoluzione francese, i cittadini devono parlare la lingua delle istituzioni, e non le istituzioni la lingua dei cittadini.

Secondo la logica che malgrado ogni ulteriore indebolimento sta invece alla base della Confederazione elvetica è lo Stato, sono le istituzioni, il governo federale che devono parlare la lingua o le lingue dei cittadini.

La pretesa che siano i cittadini a parlare la lingua dello Stato, che perciò deve essere una sola, nasce appunto con la Rivoluzione francese.

Nella Francia pre-rivoluzionaria si parlavano e anche si scrivevano quasi trenta lingue diverse.

L’attuale pressoché totale monolinguismo della Francia contemporanea è il prodotto artificiale di un potente processo di imposizione della lingua di Parigi in tutto il territorio nazionale con il conseguente annichilimento di tutte le altre lingue, a partire dalla seconda più parlata, che era la lingua d’oc.

E’ un processo che inizia alla Convenzione quando, respingendo ogni proposta in contrario, viene stabilito che le leggi siano pubblicate solo nella lingua di Parigi (il francese).

E’ con tale scelta che nasce la questione delle lingue, della lingua ufficiale, delle minoranze linguistiche e così via: un problema che poi emergerà ovunque in seguito si affermerà il modello dello Stato nazionale (con conseguenze particolarmente tragiche in aree strutturalmente mistilingui come i Balcani).

Una questione che prima non c’era, come dimostra il fatto che riguardo a epoche precedenti non se ne trova la minima traccia documentaria.

L’uomo tende naturalmente al plurilinguismo.

Ridurre popoli interi al monolinguismo è un’impresa lunga e difficile.

Fino alla sua scomparsa nel 1918 oltre alla Svizzera persisteva in Europa un altro e anche ben maggiore caso di soggetto politico di matrice medioevale, l’Impero asburgico.

Tenuto conto di quanto le due realtà fossero differenti istituzionalmente, tanto più è significativo osservare la loro straordinaria prossimità in tema di politica delle lingue.

I membri della famiglia imperiale ne parlavano di regola cinque (tedesco, ungherese, italiano, ceco e francese) e le amministrazioni dei vari territori facevano uso esclusivo delle lingue locali.

Lo confermano gli archivi della Lombardia austriaca dove tutti i documenti sono in italiano, compresa la corrispondenza ufficiale con Vienna.

L’Impero asburgico stava insieme in forza del principio di lealtà dinastica, e non di comunanza di lingua.

Quindi non sentiva affatto il bisogno di imporre come lingua ufficiale unica la lingua di Vienna.

Nella sua ricerca di un’alternativa sia alla storia che tanto più alla lealtà dinastica, la Francia rivoluzionaria s’inventa la “nazione” intesa come insieme di persone che parlano la medesima lingua e hanno diritto a un territorio fissato da dei perentori confini presunto “naturali” in quanto definiti dalle linee di spartiacque.

L’esempio tipico di questo modello è ovviamente la Francia stessa, ma l’Italia in ciò la segue da vicino, essendo stata politicamente costruita a sua imitazione.

La Svizzera invece si basa su un’idea di nazione, peraltro ben più vicina al significato originario della parola, che è fondata sulla comunanza non di lingua bensì di luogo, di ambiente di nascita: un insieme composto non da chi parla una medesima lingua bensì da chi condivide una medesima terra nativa da cui derivano comuni eredità storiche e comuni interessi.

Ben diversamente infatti da quanto affermarono i giuristi al servizio del re di Francia che lo elaborarono nel secolo XVII, per le terre alte la linea di spartiacque non è affatto un confine “naturale”.

Anzi la sua trasformazione in confine disarticola le società e le economie di montagna provocandone la marginalità e il declino.

Per rendersene conto basta confrontare la situazione della Svizzera, che ha saputo sfuggire a tale disarticolazione, con quella di tutto il resto dell’arco alpino (come pure di altre grandi aree montane, dai Pirenei al Kurdistan).

Ponendo la punta di un ideale compasso sul massiccio del San Gottardo e descrivendo grazie ad esso un cerchio che racchiuda il territorio elvetico, si scopre facilmente che al di sopra di una certa quota si è svizzeri a prescindere dalla lingua che si parla.

Si scopre cioè che sulle terre alte il confine naturale non è la linea di spartiacque bensì una curva di livello; quella cioè al di sopra della quale clima, natura dei luoghi e ruolo internazionale in tema di gestione dei passi imposero un certo tipo di società e di economia.

Con tutto questo la lingua c’entra ben poco, tanto e vero che in Svizzera si parla di “lingue nazionali” al plurale: un’espressione che alle orecchie di un francese o anche di un italiano risulta assai sorprendente.

Da tale stato di cose deriva poi la salutare necessità del plurilinguismo come strumento di coesione nazionale che oggi, nel mondo globalizzato in cui viviamo, si risolve anche in un forte vantaggio; ma è solo una conseguenza.

Adesso alla scala dell’Unione Europea l’esempio svizzero in materia sarebbe più che mai da seguire.

Invece finora è tutto un dilagare di un’inglese d’accatto, ridotto a rudimentale “lingua franca”, anche a causa del quale paradossalmente la comprensione reciproca dei cittadini dei vari paesi dell’Unione invece di crescere non cessa di diminuire.

Robi Ronza