La Trumpeconomy

Gli osservatori, gli analisti, gli osservatori finanziari, i sondaggisti non solo hanno sbagliato clamorosamente nel prevedere la vittoria di Hillary Clinton nelle elezioni presidenziali americane, ma hanno anche altrettanto clamorosamente indicato come inevitabile una caduta, anche forte, delle Borse nel caso avesse vinto, a sorpresa, Donald Trump.

E invece i mercati hanno preso un’altra direzione e nei giorni successivi al voto, soprattutto sul fronte americano hanno fatto segnare andamenti particolarmente positivi.

Sui mercati valutari le reazioni sono state più limitate, ma con un significativo apprezzamento del franco svizzero dopo mesi di sostanziale stabilità.

Le ragioni di questo andamento appaiono abbastanza razionali e si possono far risalire soprattutto sul fronte americano alla speranza che i programmi economici di Trump possano dare nuovo ossigeno sia alla finanza, che potrebbe trovare nuovi spazi di manovra, sia ai settori industriali fino ad ora penalizzati come quelli dell’edilizia e dell’energia.

Il nuovo presidente americano si dovrà comunque muovere lungo un percorso estremamente complesso.

Il suo programma fatto di tagli di imposte e maggiori spese non potrà che portare ad un nuovo aumento di un debito pubblico che ha già superato il cento per cento del prodotto interno lordo.

Uno dei punti centrali del programma economico di Trump è nella promessa di riportare negli Stati Uniti le attività industriali che negli ultimi decenni sono emigrate verso il Messico, l’America latina, il Vietnam e la Cina.

Non si è trattato solo di delocalizzazioni, ma soprattutto di nuovi investimenti fatti dalle imprese americane: si pensi ad un gigante come la Apple che fa costruire i suoi telefonini quasi totalmente in Asia.

Ma gli strumenti per raggiungere questo obiettivo non sono facili.

Trump ha innanzitutto promesso l’introduzione di dazi sulle importazioni, ma dovrà tener conto del fatto che eventuali contromisure dei paesi interessati potrebbero avere effetti negativi sulla stessa economia americana.

Ha poi garantito sostanziosi sgravi fiscali, ma anche su questo fronte dovrà tener conto dei possibili contraccolpi sul livello dei tassi di interesse per l’inevitabile aumento del debito.

C’è anche una terza strada, a cui Trump tuttavia non ha mai esplicitamente accennato: una progressiva svalutazione del dollaro.

Gli effetti più significativi vi potrebbero essere con una svalutazione verso lo yuan cinese, ma Pechino potrebbe adottare facili contromisure come ha già dimostrato di poter fare con la sua spregiudicata politica monetaria.

Senza dimenticare che Pechino possiede un terzo del colossale debito pubblico americano e può facilmente utilizzarlo come un’arma sul mercato.

La prospettive meno complessa è che la nuova amministrazione Usa lasci scivolare la propria moneta nei confronti dell’euro rispondendo peraltro all’analoga manovra europea che ha portato ad una svalutazione di fatto del venti per cento  rispetto al dollaro negli ultimi tre anni.

Al di là delle strategie valutarie resta tuttavia il fatto che il successo di Trump è stato, comunque lo si voglia giudicare, la prova dei profondi cambiamenti che sono avvenuti e stanno avvenendo all’interno della società americana, una società che può essere ancora considerata capofila delle trasformazioni indotte dall’effetto congiunto di globalizzazione e rivoluzione tecnologica.

Uno degli aspetti che fino ad ora erano considerati marginali, ma che stanno invece diventando sempre decisivi all’interno degli equilibri sociali è quello delle trasformazioni del mondo del lavoro.

Si è parlato molto dei rischi degli impieghi precari, dei bassi salari, delle scarse tutele.

Ma c’è un’area di mondo del lavoro che sta espandendosi a macchia d’olio: è quello che gli americani hanno battezzato ‘Gig economy’.

Gig, nella parlata popolare e giovanile, è lo spettacolo dal vivo, il piccolo concerto in una festa universitaria, con i suonatori compensati in modo spesso simbolico.

E così con questo termine si indicano così i lavoretti, soprattutto quelli che non richiedono grandi professionalità: affittare una camera del proprio appartamento, accompagnare on la propria macchina, recapitare oggetti o cibi pronti in bicicletta, magari anche disegnare un sito web, operazione complicatissima per una persona di mezza età, ma che per i giovani può essere letteralmente un gioco da ragazzi.

Non si tratta di una realtà marginale.

Uno studio realizzato dalla società di consulenza McKinsey ha calcolato non solo che negli Stati Uniti tra il venti e il trenta per cento della popolazione in età di lavoro è in qualche modo interessata a queste attività, ma anche  che almeno un terzo di questi consideri, o sia costretto a considerare il lavoro gig come la propria attività principale.

Per l’Europa le percentuali sarebbero solo di poco inferiori, ma sarebbero in crescita coloro che considerano questi impieghi come un’opportunità per avere un piccolo reddito supplementare.

Si deve sottolineare come la crescita di queste attività sia strettamente legata alle nuove potenzialità della tecnologia con lo sviluppo delle cosiddette piattaforme dove domanda e offerta possono incontrarsi liberamente al di fuori degli schemi tradizionali.

Ecco quindi le società attraverso cui si può trovare un camera a un prezzo molto inferiore a quello di un albergo, ma che comunque è un reddito aggiuntivo per chi l’affitta, oppure che permettono potenzialmente ad ogni automobilista di dare un passaggio a pagamento a chi ne ha bisogno.

O ancora, nella tradizione del termine gig, che mettono in relazione il pianista dilettante con chi vuole allietare con una piccola spesa la propria festa di compleanno.

E’ chiaro che queste nuove possibilità sono un’opportunità, perché consentono di avere servizi a basso prezzo e offrono lavoro a chi non ha altre alternative, ma anche un forte rischio sociale per la difficoltà di avere regole e garanzie e per la formazione di quello che inevitabilmente può essere definito, soprattutto nelle grandi città, un nuovo sottoproletariato.

Ed è anche questa dimensione che spiega il grande cambiamento sociale dell’America, quel cambiamento che ha dato almeno alcune delle basi su cui è potuto salire Donald Trump.

Gianfranco Fabi