La Svizzera è un bene da conservare

Qui rischiamo di perdere la Svizzera.

Qualche settimana fa, un economista di Bombay raccontava che l’infatuazione del cinema indiano per la Confederazione e per le sue Alpi sta declinando a grandi passi, sfidata da altri paradisi.

Sin dagli Anni Ottanta, centinaia di film di Bollywood hanno avuto i duetti d’amore e gli happy ending girati tra le nevi o sui prati delle valli elvetiche.

Comprensibile, per un Paese arso dal sole, coperto di polvere e aspirante allo chalet della borghesia emergente e romantica.

Prima, le troupe salivano verso le vette e i boschi del Kashmir, ma questioni di sicurezza li dirottarono verso Berna e dintorni, lungo una strada aperta nel 1985 dal grande regista Yash Chopra, il quale introdusse l’interludio in cui i due eroi dai capelli corvini ballano alla musica di Bollywood davanti a sfondi alpini.

Da allora, il Cut to Switzerland diventò quasi un obbligo per ogni produzione importante di Bombay, un’ossessione, e per anni, tutti i Novanta e oltre, tra i laghi e i laghetti della Svizzera finirono almeno una dozzina di carovane cinematografiche indiane all’anno.

Ora siamo a non più di due o tre, ha confidato al Wall Street Journal un funzionario dell’ente del turismo elvetico, Urs Eberhard.

Un po’ è che anche gli indiani cambiano gusti, ora preferiscono vedere danzare le loro star su un tetto di Londra e in un parco di New York, piuttosto che attorno a una baita di montagna.

Ma soprattutto è che la concorrenza è diventata aggressiva.

Il Tirolo austriaco ha un programma di incentivi per attrarre i registi indiani.

Una serie di proposte sono state avanzate dalla Polonia e accettate a Bombay.

Il Tajikistan si è fatto avanti.

E Dubai ha già strappato qualche produzione alla Svizzera.

E’ la globalizzazione al lavoro: gli svizzeri dovranno trovare il modo di riprendersi i film di Bollywood, non tanto per il business in sé, neanche in fondo per gli oltre trecentomila indiani che vanno in gita e in luna di miele nelle location che videro in azione i loro divi: è soprattutto una questione di reputazione, di questi tempi non ti puoi permettere di essere abbandonato, di risultare meno attraente.

Chi perde è perso e l’effetto domino può essere fatale.

Anche in un’attività ben più rilevante degli spezzoni di cinema, infatti, la Confederazione zoppica.

In uno studio sulla ricchezza pubblicato di recente dalla società di consulenza Boston Consulting Group, si dice che oggi la Svizzera è ancora la maggiore piazza finanziaria offshore per la gestione del denaro dei ricchi del pianeta, con circa duemilatrecento (2.300) miliardi di dollari in gestione, il ventisei per cento (26%) di tutti i capitali detenuti offshore.

Ma si aggiunge che il Paese è sotto la forte pressione delle autorità dei Paesi industriali avanzati – da cui buona parte dei denari nei forzieri delle banche elvetiche proviene –, impegnate in una grande guerra all’evasione fiscale.

“Nel lungo periodo – dice lo studio – la posizione della Svizzera come maggiore centro offshore del mondo è sfidata dalla crescita di Singapore e Hong Kong, che attualmente detengono il sedici per cento (16%) dei patrimoni offshore” e attraggono oggi più denaro di Zurigo, Ginevra, Lugano eccetera.

Ora, non è che gli svizzeri siano ingenui e incapaci di reagire.

Negli Anni Ottanta, quando i giapponesi invasero i mercati con gli orologi al quarzo, sembrava che la patria dell’orologio a cucù dovesse rassegnarsi al tramonto.

La reazione fu invece brillante: sia grazie alla Swatch, low-cost, sia grazie alle alleanze di marketing tra i produttori storici di qualità, high-end.

Con il risultato che in fatto di orologeria gli elvetici hanno mantenuto, forse incrementato, il primato.

Ma anche di recente hanno dato prova di freddezza.

Nonostante il populismo avanzi in tutto il mondo, l’anno scorso, a uno dei tanti referendum, gli svizzeri hanno sì detto che agli stipendi dei manager è legittimo mettere un tetto, ma hanno rifiutato l’idea che a stabilirne l’altezza sia lo Stato: è una questione – hanno fatto sapere con il voto – che spetta agli azionisti, cioè ai proprietari delle aziende.

Una decisione che con referendum in altri Paesi probabilmente non sarebbe stata presa e che garantisce, almeno in parte, che le tante multinazionali che hanno la testa in Svizzera la tengano lì.

Siamo di fronte a un popolo piuttosto saggio, dunque.

La quale circostanza, combinata con un sistema democratico ammirevole, in genere produce ottimi risultati.

Basta attraversare il confine per notarlo.

Ciò nonostante, il problema oggi si impone: riusciranno gli svizzeri a fare fronte alle pressioni dei governi di mezzo mondo affinché, in sostanza, smantellino la loro piazza finanziaria?

O riusciranno a modificarla in modo accettabile per la comunità internazionale?

Sapranno rispondere alla concorrenza indotta dalla globalizzazione, si parli di Bollywood o di cassette di sicurezza?

Non sono fatti solamente loro.

E’ vero che la confederazione e le sue banche sono spesso state benevole – per interesse – con molti dei dittatori più odiosi e con i loro patrimoni rubati, è vero che la criminalità internazionale ha spesso approfittato della segretezza dei conti correnti cifrati.

Tutte questioni che le autorità elvetiche devono risolvere.

Senza la Svizzera, però, il mondo sarebbe un luogo peggiore.

Un’isola di libertà e di diritti di proprietà certi nel cuore dell’Europa, infatti, è una garanzia per i valori – intesi come ideali – dell’Occidente.

I conti riservati, in fondo, sono un’eredità di lungo periodo degli ugonotti perseguitati in Francia e riparati in Svizzera.

Non a caso conti correnti odiati dai nazisti che in ogni modo cercarono di metterci becco.

E, ancora oggi, un Paese serio ed efficiente, fondato su regole certe, che difenda il denaro quando dorme, come in qualche caso, o quando non dorme, come quasi sempre, è un’alternativa che frena gli eccessi interventisti degli Stati, anche di quelli in teoria più democratici, i quali senza la concorrenza della Svizzera sarebbero un po’ più tentati di mettere antenne nelle nostre case e le mani nelle nostre tasche.

Non è politicamente corretto dirlo, ma la Svizzera è un bene da conservare.

Danilo Taino