La ‘Petite Madeleine’ di Guido Morselli

tra il 31 luglio e l’1 agosto 1973 va collocato il suicidio di Guido Morselli la cui figura ricorda in queste righe Tiziana Mainoli

 

 

 

La mattina, puntuale, sempre verso le otto arrivava davanti alla vecchia pasticceria: elegante, compito, con portamento distinto, a cavallo del suo nero Zeffirino.

Prediligeva un abbigliamento elegante, ma piuttosto sportivo che qualcuno ha definito “trasandato-ricercato”: giacche quadrettate o impermeabile con la cintura annodata, berretto con aletta, pantaloni a sbuffo tipo zuava, foulard al collo, stivali.

A volte la pipa e sempre, immancabilmente, una valigetta e un paio di guanti che, dice la proprietaria del bar-pasticceria, dimenticava spesso sul tavolo.

Annodava le redini del cavallo all’inferriata di una finestra di casa Maggioni, entrava e si sedeva sempre allo stesso posto: un tavolino vicino alla porta a vetri perché, diceva:

Ho bisogno della luce diretta per scrivere, non accenda per favore quella artificiale, mi dà molto fastidio, non la sopporto.”

Ordinava il suo “solito” caffè: mezza dose in mezza tazza grande “alla svizzera” come diceva lui e poi, a volte, lo accompagnava con uno zaletto, tipico dolce di pasta-frolla spolverato di zucchero; capitava anche che ne acquistasse qualcuno da portare a casa.

Forse, quando Guido Morselli  riassaporava quegli zaletti nell’illusoria, bramata quiete di Santa Trìnita, ricalcava con spiccata evidenza l’emblematica immagine proustiana della “Petite Madeleine”.

Proust scriveva:

“Ella mandò a prendere uno di quei dolci corti e rigonfi chiamati Petites Madeleines.

Ed ecco, meccanicamente, oppresso dalla giornata grigia e dalla prospettiva di un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè in cui avevo inzuppato un pezzetto di Madeleine.

E improvvisamente il ricordo mi è apparso.

Quel sapore era quello del pezzetto di Madeleine che la domenica mattina a Combray, quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo imbevuto nel suo infuso di tè o di tiglio”. (Marcel Proust, A’ la recherche du temp perdu. Du coté de chez Swann).

Mangio volentieri questi dolci” disse un giorno Guido Morselli alla signora della pasticceria “mi piacciono soprattutto perché mi ricordano il sapore della pasta che mia madre preparava quando ero bambino”.

Non v’è giornata in cui, per un’ora o per un minuto, la mia esperienza passata non riviva in me, resa attuale, transfusasi nel mio pensiero e nello stato del mio animo.

Le ultime parole che ebbe per me mia Madre”. (Guido Morselli, Diario, Adelphi, Milano, 1988, 11 maggio 1946).

E ancora Proust:

“Ma quando niente sopravvive di un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più tenaci ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore restano ancora per lungo tempo, come delle anime, a ricordarci, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo”.

E di ricordi Guido Morselli si nutriva.

Per lui il passato, esasperatamente in antitesi col significato proprio del termine, rappresentava un bagaglio di eventi filtrati e inseriti costantemente nel presente.

Un radicamento tale da condizionare il suo tempo sino a renderlo un continuo “scorrimento abbinato” passato-presente.

Una specie di rimozione del riscontro con le realtà del concreto-quotidiano che lo portò ad una solitudine sfociante in un progressivo isolamento minato da manie, ossessioni e fobie che lo condussero a porre fine prematuramente ai suoi giorni.

Soffriva per l’effimerità  che percepiva in tutte le realtà tangibili come coscienza continua che queste gli fossero date in prestito:

Io mi trovo in uno stato d’animo (non so se, invecchiando, ci arrivano tutti), per cui le poche cose buone che mi sono concesse – per esempio l’amore di una donna, il godimento della mia casa, della mia terra – mi sembrano concessi in usufrutto, dovrei dire, non in proprietà.

Non mi sembrano beni destinati a me, aventi me individualmente per termine e scopo. (Guido Morselli, Diario, Adelphi, Milano, 1988, 25 novembre 1962).

E il distacco totale da questi beni non avvenne solo nell’attimo finale:

Ciascuno di noi sente, anche se in confuso, che quell’atto colpisce la complessa trama dei legami, con cui la natura ci tiene stretti alla vita.(Guido Morselli, Diario, Adelphi, Milano, 1988, 20 febbraio 1940).

Guido Morselli conobbe già a dodici anni l’ineluttabilità del distacco con la perdita della madre e in seguito della sorella Luisa.

La morte, dunque, che aveva insegnato a quel ragazzino che tutto è sua preda in ogni momento, come spada di Damocle sul capo, fu da lui “sconfitta” la notte tra il trentuno luglio e il primo agosto 1973.

Nessuno si è mai tolto volontariamente la vita.

Il suicidio è una condanna a morte della cui esecuzione il giudice incarica il condannato” (Guido Morselli, Diario, Adelphi, Milano, 1988, 26 novembre 1948).

La sentenza, emessa per Guido Morselli parecchi anni prima, da quel fantomatico giudice che lo condannò, previa una lunga vita nel braccio della morte, alla pena capitale, aspettò al varco il suo condannato-esecutore là nell’attimo in cui fu per lui più congeniale premere quel freddo grilletto.

Scrisse nell’agosto del 1956:

Ci vuole un qualche disperato coraggio, e non soltanto fisico, perché un povero diavolo si punti la gelida canna di una pistola alla tempia, perché il suo dito schiacci quel grilletto...”

 

Tiziana Mainoli