La fuga dei cervelli – Norge/Norvegia

Luca Riboldi, Ingegnere energetico, laureato al Politecnico di Milano, sta facendo un PhD presso il dipartimento di Energy and Process Engineering al NTNU di Trondheim, Norvegia. Tema della sua ricerca è la cattura del CO2 in ambito energetico. Il suo contratto prevede ’teaching duties’: correzioni, esami, tutoring e lezioni. – MdPR

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Sono arrivato in Norvegia, a Trondheim, nel Marzo del 2012.

Ricordo che fu piuttosto semplice ottenere la posizione.

Feci un’applicazione online, presentando pochi documenti che certificassero la mia istruzione e le mie conoscenze.

Mi fu comunicato che alla data di scadenza del bando erano state presentate circa una quarantina di domande per quella posizione (non ricordo il numero esatto).

Trondheim, Norvegia
Trondheim, Norvegia

A quel punto mi aspettavo che partissero le selezioni vere e proprie.

Invece il mio attuale ‘supervisor’ mi chiamò e mi disse: se lo vuoi il posto è tuo!

Rimasi non poco sorpreso e tuttora non ho ben chiaro per quale motivo mi selezionò senza ulteriori approfondimenti.

Capita spesso, anche qui in Norvegia, che un professore scelga tra i candidati una persona che ha avuto modo di conoscere da vicino (il tesista per esempio).

Spesso però le selezioni sono piuttosto scrupolose.

Un punto che tengono piuttosto in considerazione, quando a fare domanda è uno straniero, è se il candidato abbia o meno un’esperienza precedente in un paese nordico.

Il timore, abbastanza giustificato, è che il selezionato non si adatti al paese.

Dal punto di vista climatico, sociale e culturale.

Il primo impatto con la realtà norvegese è stato abbastanza difficoltoso.

Ero già stato a Trondheim per qualche mese come studente erasmus.

Quella la considero però un’esperienza radicalmente diversa.

Innanzitutto perché a termine: partii con in mente ben chiara la data del mio ritorno.

Inoltre perchè la vita da studente molto ben si concilia con brevi soggiorni esteri.

Dal punto di vista lavorativo, arrivai un po’ impreparato.

Soprattutto per quanto concerne il come affrontare un PhD, di cui avevo un’esperienza molto limitata.

Forse un po’ ingenuamente, mi aspettavo che il mio professore di riferimento, mi facesse da guida e mi desse indicazioni su come muovere i primi passi da dottorando.

E che a seguire indirizzasse il mio progetto di ricerca.

Mi trovai invece subito a sbattere il muso con la realtà norvegese.

La parola chiave qui, non solo in ambito lavorativo, è indipendenza.

Dopo una breve introduzione all’università, ai metodi e alle persone, fui abbandonato a me stesso.

Mi trovai piuttosto spaesato da questo atteggiamento e ci misi molto tempo prima di abituarmi alla situazione.

Tuttora sono il responsabile primo del mio lavoro, di cui il mio ‘supervisor’ ha una conoscenza più o meno approssimativa.

Certo, la mia è una situazione limite.

Altri miei colleghi dottorandi hanno persone di riferimento che li seguono molto più da vicino e partecipano all’orientamento del lavoro.

Però mi sento di sostenere che la tendenza generale è di un maggiore livello d’autonomia rispetto ad altre realtà che ho conosciuto in Italia.

Parlando con altre persone, non norvegesi, ho recepito una simile attitudine anche al di fuori dell’ambito accademico.

Questa caratteristica ha senza dubbio risvolti positivi, come una maggiore responsabilizzazione a tutti i livelli.

Ci sono però anche declinazioni negative.

Nel mio caso, trovo a volte frustrante l’impossibilità di potersi confrontare con qualcuno  sulle problematiche che possono insorgere nel mio lavoro.

Vi sono altri aspetti peculiari nel modo di concepire il mondo del lavoro in Norvegia.

Prima di tutto, qui il lavoro non trova mai un fine in se stesso.

La sensazione è che venga considerato come un mezzo per vivere bene.

Difficilmente come una maniera di autorealizzarsi.

In Norvegia molti altri aspetti della vita assumono per lo meno pari dignità.

Certo questa mentalità è molto facilitata dal diffuso livello di benessere.

D’altro canto è un dato di fatto che gli orari di lavoro siano meno stressanti, l’ambiente più rilassato, la flessibilità massima.

Questa maniera di porsi magari non stimolerà il lavoratore a rendere al massimo delle proprie possibilità, però senza dubbio permette di vivere in maniera più distesa la quotidianità.

Un ulteriore aspetto interessante è il rispetto che si ha per il lavoro di tutti.

La società non è strutturata come per esempio in Italia e la forbice sociale abbastanza limitata (il professore non guadagna dieci volte tanto il dottorando!).

Conseguenze di ciò sono un più basso livello di formalismo sul lavoro e altrettanto minori spinte carrieristiche.

L’ambizione, la voglia di arrivare in alto è materiale abbastanza raro nel norvegese medio.

E’ quindi tutto oro quel che luccica?

Tendenzialmente sì.

Vi è un solo unico problema, se così si può definire.

Se si vuol godere delle agiatezze norvegesi, bisogna, ovviamente, vivere in Norvegia.

Vivere qui vuol dire rinunciare a molte cose che si è imparato ad amare del proprio paese.

Dare un nome a queste mancanze non è sempre semplice.

E’ un complesso di abitudini, sensazioni, tradizioni che diamo per scontate fino a quando ci accorgiamo di averle perse.

Con questo non voglio dire che in Norvegia si viva male o peggio che per esempio in Italia.

In maniera diversa.

Un esempio immediato e financo banale può essere nel campo alimentare (i soliti italiani…).

La ricchissima scelta che abbiamo in Italia, qui ce la sogniamo e i supermercati vendono spesso pochi prodotti e uguali dappertutto.

La cultura del bere poi è scarsissima.

I norvegesi bevono male e molto.

In più, o forse di conseguenza, lo stato ha posto dei paletti molto rigidi.

Gli alcolici si comprano solo in negozi specializzati e ad orari precisi.

Anche la società con le sue interazioni è molto distante da quella che conoscevo.

Cercando di non cadere in luoghi comuni, è però vero che i norvegesi sono persone estremamente riservate.

Ancora una volta la parola chiave per descriverli penso possa essere indipendenza.

La capacità di vivere in maniera autonoma da chiunque altro sembra essere vista come un pregio importante.

Questo non vuol dire che condividere uno spicchio anche piccolo della propria giornata con altri non sia cosa loro gradita.

Piuttosto che essi siano in grado di farne a meno.

Questa loro autosufficienza li rende probabilmente poco inclini a certi costumi più propriamente latini.

E’ facile scambiare questi atteggiamenti con una presunta tendenza anti sociale.

Non è tuttavia corretto.

Al di là di questa barriera, che peraltro solo noi stranieri riteniamo tale, sono persone estremamente affabili e disponibili.

Infine due parole sull’integrazione.

Vorrei distinguere due livelli: accettazione e integrazione.

In quanto ad accettazione la Norvegia è estremamente aperta e avanzata.

Il mio dipartimento si può tranquillamente definire multi culturale (i non norvegesi sono almeno la metà) e la lingua semi ufficiale è l’inglese.

Gli stranieri vengono visti come una risorsa e per quanto possibile facilitati nell’inserimento.

Il rischio è di vivere  una realtà quasi parallela a quella norvegese vera e propria.

I colleghi sono stranieri, gli amici più intimi pure (se non addirittura della propria stessa nazione), la lingua norvegese è uno strumento di cui si può fare a meno.

Il risultato è di avere contatti quasi sporadici con i locali.

La vera integrazione è quindi più complicata e richiede impegno e abnegazione.

E a volte una buona dose di tempo e pazienza.

Detto questo, la sensazione è che la società norvegese sia tendenzialmente propensa ad adottare chi si sobbarchi questi sforzi.

Bisogna insomma dimostrare loro di volere fortemente far parte del loro club.

Luca Riboldi