Je me souviens du General Pinochet

François Nicoullaud, analista di politica internazionale, già ambasciatore di Francia in Iran.

Alla traduzione, fa seguito il testo originale in francese. – MdPR

* * *

Nell’estate del 1973, avevo allora trentatré anni, fui nominato secondo segretario presso l’ambasciata di Francia in Cile.

Ricordo che mia moglie ed io avevamo i biglietti per arrivare a Santiago il 12 settembre, ma proprio alla vigilia, ancora a Parigi, ascoltando la radio apprendemmo che Salvator Allende era appena stato deposto con un colpo di Stato.

L’aeroporto di Santiago fu chiuso e tutti i voli, sospesi.

Riuscimmo poi ad arrivare una settimana più tardi con il primo volo autorizzato a raggiungere la capitale cilena.

Il Generale Augusto Pinochet
Il Generale Augusto Pinochet

Lo sbarco, tra due ali di soldati armati ai piedi della passerella, fu impressionante.

Penetrando nel centro della città passammo lungo i resti carbonizzati della Moneda, il palazzo presidenziale circondato da carri armati.

L’ambasciata ci aveva riservato una stanza in un grande albergo in centro e vi arrivammo nel pomeriggio senza che poi ne potessimo uscire dato che il coprifuoco cominciava alle cinque.

Dalla nostra finestra, all’ottavo o nono piano, vedevamo le persone che come formiche impaurite correvano verso gli ultimi autobus  in servizio, già sovraccarichi.

Gli ultimi passeggeri si attaccavano all’esterno, intorno al predellino, a tal punto da far pendere pesantemente i mezzi verso la loro sinistra, conferendogli una strana andatura da granchio.

Mi ricordo che il paese era piombato nella scarsità e carestia.

Qualche giorno dopo, ricongiunti con i nostri figli, ci installammo nella villa, ormai vuota, del mio predecessore.

Al tramonto, il primo supermercato nel quale entrammo era ben illuminato e le corsie, da lontano, ben fornite.

Affamati, ci  avvicinammo ma il negozio vendeva esclusivamente pomodori in scatola e per due settimane non mangiammo altro che patate.

I diplomatici in sede erano organizzati meglio.

Il vice-console, dopo averci invitati a pranzo, ci aveva portati a visitare la sua cantina e fatto ammirare il contenuto di numerosi congelatori pieni di arrosti, di pollame e cosciotti vari senza che gli venisse in mente di offrircene un poco.

Mi ricordo, al di là di queste piccole questioni, certo, della repressione feroce che si estendeva via, via in cerchi sempre più larghi man mano che aumentavano le confessioni e il furto delle agende con gli indirizzi degli uni e degli altri.

I perseguitati si rifugiavano a ondate nelle ambasciate e, Parigi consenziente, all’improvviso l’ambasciata di Francia rimase aperta.

Anche il personale locale, favorevole alla Giunta per quel che serviva, stava al gioco lealmente dato che l’ascendente morale dell’ambasciatore, Pierre de Menthon, risolveva sul nascere qualunque esitazione sulla linea da seguire.

L’ambasciatore aveva ‘liberato’ i giardini e tutti i saloni della sua residenza per far spazio ai richiedenti e dato che il mio ufficio era occupato da una quarantina di letti da campo, condividevo con lui quello del primo consigliere.

Bisognava sfamare tutta quella gente e le nostre mogli, organizzate in gruppo, si adoperavano per questo.

Ecco in che modo più di settecento rifugiati hanno potuto, a ondate, essere ospitati nei nostri locali prima di poter partire, dopo due o tre settimane,  per la Francia.

Il ministro cileno per gli affari esteri che rilasciava i visti, collaborava discretamente.

Mi ricordo che potevamo facilmente contattare  i franco-cileni internati non appena venivano trasferiti dai centri di detenzione e degli interrogatori clandestini alle prigioni ufficiali dove la burocrazia, abbastanza protettiva per sua stessa natura, riprendeva i suoi diritti.

La prigione centrale di Santiago, dove mi recavo ogni tanto, riservava ai detenuti un regime, tutto sommato, bonario.

L’entrata, un buco in un muro di intonaco dentellato, fiancheggiata da due palme e due cannoni fuori uso, somigliava un po’ a quella di Forte Alamo.

Durante gli orari del parlatorio, tutti, prigionieri, famiglie cariche di cesti pieni di provviste alimentari, visitatori come me, si stava, senza alcun divisorio, in una grande sala scarsamente sorvegliata.

Mi ricordo del primo prigioniero di cui ebbi ad occuparmi.

Si chiamava Victor Romeo; figlio di un diplomatico francese sposato in Cile con una cilena durante la seconda guerra mondiale, il quale, entrato poi nella Resistenza, era stato fucilato dai Tedeschi.

La sua vedova era rimpatriata con il piccolo Victor appena nato.

Era cresciuto  in Cile senza più alcun legame con la Francia e aveva aderito al Movimento della sinistra rivoluzionaria partigiano della lotta armata.

La sera del colpo di Stato, aveva raggiunto la sua cellula di militanti e il piccolo gruppo si era armato e diviso in due per setacciare il quartiere alla ricerca di militari golpisti.

Ma disgraziatamente i due distaccamenti si erano incrociati nella notte e sparati addosso l’un l’altro.

In preda al panico si erano rassegnati a chiamare la polizia e  per questo Victor Romeo, gravemente ferito ad una gamba, si era ritrovato prigioniero all’ospedale.

Andavo a trovarlo in prigione e, stando con lui, facevo grandi progressi in spagnolo.

Alla fine Romeo è stato condannato ad una pena immediatamente convertita in espulsione.

L’abbiamo fatto evacuare verso la Francia, l’ho salutato all’aeroporto e non l’ho visto mai più.

Ricordo di essere stato contattato da una famiglia angosciata per il padre detenuto a Arica, a nord del paese.

Telefonai al direttore della prigione per dirgli che teneva prigioniero un Francese al quale l’ambasciata di Francia teneva molto.

Di fatto era un Cileno con radici francesi che però, come Romeo e la maggioranza dei Franco-cileni non spiccicava una parola di francese.

Il mio spagnolo era ancora grezzo e la linea non prendeva bene, la voce gracchiava.

La conversazione quindi era stata breve ma il direttore, a duemila chilometri di distanza, pareva essere stato molto impressionato per aver parlato con un diplomatico straniero.

In seguito, non me ne sono più occupato.

Il detenuto in questione fu poi liberato otto o dieci mesi più tardi;  venne a trovarmi e mi disse che tutti i prigionieri del suo raggio, tranne lui, erano stati fucilati.

Venivano a prendere i suoi compagni di cella con una frase di rito: “Ven, vamos a sacarte la fotografía” (“vieni, ti facciamo la foto”).

Lui, lo chiamavano ‘el Francès’.

Mi ricordo anche delle sale per le udienze dei tribunali militari.

Da qualche parte a nord di Santiago, alla caserma delle Forze aeree, ho così potuto assistere al processo di un generale leale all’Unità popolare.

Alla fine dell’udienza fu condannato a morte benché l’atmosfera fosse la medesima di un’udienza di routine.

Forse la sentenza non fu poi eseguita.

Ad un altro processo davanti al tribunale militare, l’accusato, un amico di Allende, un Franco-cileno molto distinto di cui mi occupavo, era arrivato con le catene ai piedi.

Strisciando sul pavimento facevano un rumore veramente orribile.

Mi ricordo di un giovane Vietnamita che si chiamava Trân e che veniva a trovarmi ogni tanto all’ambasciata, ben contento di andarsene con due o tre pacchetti di Gauloises.

Era venuto in Cile per partecipare all’Unità popolare e si era sposato con una giovane Cilena.

Seppi, in seguito, che lo avevano  arrestato.

Il suo corpo torturato fu poi trovato e credo di avere ancora, da qualche parte,  una fotografia del suo viso tumefatto.

Eravamo una dozzina di persone al suo funerale al grande cimitero centrale di Santiago.

In quell’angolo c’erano molte fosse scavate da poco, senza croce né pietra.

Mi ricordo che in Cile, paese profondamente cattolico, oltre che del dolce vivere, fiorivano scarse vocazioni sacerdotali.

Perciò accoglieva preti europei, segnatamente francesi.

Purtroppo si facevano prendere dall’atmosfera proprio come capitò a quel parroco francese, officiante in provincia, nella regione di Copiapo.

I suoi genitori, molto pii, avevano saputo, dopo, che il loro figlio era stato giustiziato durante il Colpo di Stato perché ritenuto filo-marxista, che precedentemente si era sposato con una Cilena et che aveva avuto, da lei, un bambino.

Era davvero troppo ma tutto sommato furono poi contenti di avere un nipotino insperato e avevano fatto venire in Francia sia il bambino che la madre.

Mi ricordo, in una dimensione meno tragica, di un prete francese e di una suora risucchiati nel vortice dell’Unità popolare e presi da passione l’uno per l’altro.

Si erano potuti rifugiare all’ambasciata.

La giovane donna era incinta e aveva partorito a ridosso del Natale.

Erano stati espulsi poco dopo verso la Francia.

Li rivedo in partenza con il loro bébé imbacuccato, stile ‘fuga in Egitto’.

Ricordo di aver scoperto il volto del generale Pinochet alla televisione, nella nostra stanza d’albergo, il giorno dopo il nostro arrivo.

La sua prima intervista dopo il colpo di Stato.

Alla giovane giornalista che gli rivolgeva la domanda con fare vezzoso: “Generale, avrebbe un piccolo difetto da confessarci?”, aveva risposto dopo un momento di silenzio: “Sinceramente non trovo”.

Mi ricordo che il giornale la Segunda, quotidiano popolare della sera, decisamente schierato con il Colpo di Stato, pubblicava ogni giorno poemi inviati da lettori  a celebrare la gloria del  Pronunciamiento militar.

Tra questi, uno particolarmente sfrenato, era dedicato a mi General come dicevano allora i più ferventi partigiani del capo della Giunta.

Ma leggendo le prime lettere di ogni versetto si formava la frase : “milicos cobardes y traidores” (“militari, vigliacchi et traditori”).

La città intera ne rideva e il direttore del giornale aveva avuto delle seccature.

Mi ricordo di aver stretto la mano di Pinochet durante una parata militare.

Piazzato in alto nella tribuna ufficiale, vedo ancora la schiena di sua moglie, piuttosto grassoccia, nell’atto di stirare con la mano il posteriore della sua gonna prima di sedersi come un’attenta economa dei suoi abiti personali.

Mi ricordo che malgrado il nostro aiuto ai perseguitati politici, la gente del nuovo regime, certamente assetata di riconoscimento ufficiale, ci trattava come niente fosse.

Perciò svolgevamo in aggiunta al trattamento dei rifugiati, il lavoro classico di un’ambasciata: visite, formalità, ecc.

E mi vedo  nell’ufficio di uno degli assistenti della Giunta  a chiacchierare di cooperazione culturale.

Insisteva molto perché facessimo arrivare  a Santiago ‘Il Lago dei cigni’.

Non osavo dirgli che nel clima di terrore che regnava allora, salti e piroette mi parevano fuori luogo.

Mi balenava davanti  agli occhi l’immagine di cigni galleggianti in pozzanghere di sangue.

François Nicoullaud

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