Il mio film della vita

Il mio film della vita è ‘Il laureato’.

L’ho visto centodiciotto volte (ma posso sbagliarmi, forse sono centodiciannove) e ne conosco a memoria ogni dialogo, nonché ogni primo piano della faccia di Dustin Hoffman.

La sua battuta “Io non sono così, anzi così mi faccio schifo”, detta alla ragazza di cui si è appena innamorato, fu l’arma atomica che usai durante la giovinezza per conquistare le ragazze più renitenti: di solito si lasciavano attrarre dall’idea di redimermi, salvo poi scoprire che dietro la frase del Laureato non c’era il Laureato ma un liceale moderatamente problematico e in fondo abbastanza abituato a redimersi per conto suo.

Il film – lo ricordo per i pochi sventurati che non lo hanno mai visto – è la storia di un ventenne che ammazza la noia post scolastica cedendo alle lusinghe della migliore amica dei suoi genitori: la signora Robinson, annoiatissima dalla vita pure lei.

La storiella finisce, ma irrompe in scena la figlia di lei, la signorina Robinson, e il Laureato se ne innamora.

Quando la ragazza viene a sapere dalla madre la verità, Dustin non demorde e la insegue ossessivamente fino alla scena finale: lui che entra nella chiesa dove lei si è appena sposata con un altro e la rapisce, dileguandosi insieme alla fanciulla su una corriera.

A quel punto accade l’evento che ha segnato la mia formazione sentimentale.

Dustin e la ragazza vestita da sposa si siedono in fondo all’autobus e parte la musica di Simon and Garfunkel ‘The sound of silence’.

Hanno appena compiuto il gesto più clamoroso della loro vita eppure NON SI DICONO ASSOLUTAMENTE NIENTE.

Neanche un “ciao come stai?” o un “sei sudato?”

Guardano fissi davanti a sé e a lui ogni tanto scappa un mezzo sorriso, mentre la musica sale di tono e sullo schermo appare ‘The End’.

Per anni e anni ho impostato i miei rapporti d’amore sul modello inarrivabile di quella coppia.

La supremazia dei gesti sulle parole.

La forza irresistibile della comunicazione inconscia dei sentimenti.

L’anima veramente gemella.

Finché un orribile giorno ho aperto una rivista e dentro c’era il regista del film, Mike Nichols, che spiegava il significato di quel silenzio finale: “Volevo far capire allo spettatore che i due protagonisti dell’impresa, un minuto dopo averla compiuta, non avevano già più niente da dirsi.

Non ho mai girato il seguito del ‘Laureato’ perché avrei dovuto raccontare la storia di un divorzio”.

Quel giorno ho appreso una lezione che non ho più dimenticato.

Mai leggere le interviste agli autori delle opere che ti hanno cambiato la vita.

Rischiano di distruggertela.

Massimo Gramellini