Foibe ed esodo: io non scordo

Varese 10 febbraio 2017

Giorno del Ricordo, Aula Magna dell’Università dell’Insubria.

Allocuzione di Pier-Maria Morresi, presidente del Comitato provinciale di Varese dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. Consigliere nazionale ANVGD.

 

Sono trascorsi settant’anni da quando 350mila giuliano-dalmati sopravvissuti agli eccidi comunisti abbandonarono con ogni mezzo la loro amata terra, sperimentando la tragedia dello sradicamento totale e collettivo.

La maggior parte di loro è morta senza avere non dico giustizia, ma almeno il sacrosanto diritto di veder riconosciuto il proprio immane sacrificio.

Chiedo in prestito le parole al presidente emerito Giorgio Napolitano: “La tragedia di migliaia di italiani imprigionati, uccisi, gettati nelle foibe assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica”, ha detto nel 2007, rompendo dopo 60 anni la cortina del silenzio.

“Il moto di odio e di furia sanguinaria” aveva come obiettivo lo “sradicamento della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia”.

Ma soprattutto gli siamo grati per il mea culpa pronunciato a nome dell’Italia: “Dobbiamo assumerci la responsabilità dell’aver negato la verità per pregiudizi ideologici”.

Sono passati molti anni prima che io capissi davvero: la scuola certo non mi ha aiutato, censurando completamente la tragedia collettiva occorsa nelle terre d’Istria, Fiume e Dalmazia, e d’altra parte molti dei testimoni diretti, e fra questi i miei genitori, gli esuli fuggiti in massa dalla dittatura del maresciallo Tito e dal genocidio delle foibe, rinunciavano a raccontare, rassegnati a non essere creduti.

Ciò che durante e dopo la II guerra mondiale era accaduto in decine di migliaia di nostre famiglie, restava un incubo privato da tenere solo per noi perché al resto degli italiani non interessava.

Eppure era storia.

La Nostra storia: la storia d’Italia.

Sono tornato tre volte a Pola.

La prima con i miei genitori : ero un ginnasiale.

La seconda con mia moglie, appena sposato, per mostrarle la mia Terra d’origine.

L’ultima l’anno scorso dopo quaranta anni, sempre con mia moglie, per partecipare al raduno degli Esuli da Pola, che da alcuni anni si tiene proprio nella Città istriana.

In quella sede ho incontrato Lucia Bellaspiga, di famiglia polesana, giornalista dell’Avvenire, cugina della mamma del mio vice presidente. Più di dieci anni fa aveva condotto la nostra celebrazione, qui in questa stessa Aula Magna.

Da alcuni anni viene chiamata in Parlamento il 10 febbraio per dirigere con competenza e maestria la cerimonia alla presenza delle più alte Autorità dello Stato.

In attesa di riaverla qui a Varese, come ci ha promesso, nel mio intervento seguirò a volte l’eco delle sue parole.

Ogni ritorno porta con sé un dolore, così per molti anni a Pola i miei genitori non tornarono più.

Dentro di me intanto lavorava il richiamo delle origini, cresceva il desiderio di sapere e così, ho iniziato a ripercorrere, studiando, documentandomi, l’esodo dei nostri padri.

Le voci degli esuli si vanno affievolendo ed una alla volta spegnendo.

I miei genitori senza aver visto il riconoscimento del Giorno del Ricordo, riposano al cimitero di Casbeno, qui a Varese.

Lo stesso dove loro avevano sepolto le spoglie dei miei nonni traslati da Pola, superando mille difficoltà  

Le loro voci si sono spente ed io ho sentito l’imperativo morale di comunicare il ricordo.

Intanto il Novecento, secolo della paura, è diventato Duemila, l’Europa una casa comune sotto il cui tetto abitano popoli un tempo nemici.

I giovani oggi, da una parte e dall’altra del mare Adriatico, sognano un mondo nuovo, segnato dalla pace e dal progresso condiviso.  

E noi?

Gli ultimi esuli rimasti a testimoniare, a ricordare le tragiche vicende del confine orientale d’Italia con i figli e nipoti dell’esodo; noi con chi è nato “al di qua” dell’Adriatico, che ruolo abbiamo in questo mondo che cambia ma che non deve dimenticare?

Tocca a noi, dopo il secolo della barbarie, tenere alta la memoria non per recriminazioni o vendette, ma perché ciò che è stato non avvenga mai più. 

Se il perdono, infatti, è sempre un auspicio, è stato ricordato ieri alla Celebrazione di Roma in Parlamento dal Presidente della Camera, riprendendo quanto detto da Lucia Bellaspiga, la memoria è un dovere, è la via imprescindibile per la riconciliazione.

Non è vero che rimuovere aiuti a superare, anzi, la storia dimostra che il passato si supera solo facendo i conti con esso e da esso imparando.

Il 13 giugno di due anni fa è stato compiuto un altro grande passo sulla via della verità sempre alla Camera, quando per la prima volta dopo 68anni, si è commemorata (e riconosciuta) la strage di Vergarolla: 28 ordigni fatti esplodere sulla spiaggia di Pola, oltre cento vittime tra adulti e bambini.  

Era l’agosto del 1946, già in tempo di pace, si tratta quindi della prima strage della nostra Repubblica, più sanguinosa di piazza Fontana, più della stazione di Bologna, eppure da sempre nascosta.  

Con Vergarolla per i Polesani fu chiaro che la sola salvezza era l’esilio.   Ma una verità riconosciuta è la vittoria più grande che i nostri nonni, padri e fratelli abbiano potuto avere.

E non gliela toglie nessuno.

Perché è facile smontare un monumento, rompere sistematicamente una fotografia di un chirurgo eroico , mi riferisco al dottor Geppino Micheletti ritenuto cittadino benemerito anche dall’odierno Comune di Pola, che per quarantotto ore senza tregua operò i feriti della strage pur sapendo che in essa erano morti due suoi figli, ma è altrettanto facile ricostruirlo.

Difficile, anzi impossibile è invece smontare la fortezza della verità.

Si mettano l’anima in pace, i vandali vetero comunisti croati.

Con Vergarolla per i Polesani e gli Istriani fu chiaro che la sola salvezza era l’esilio.

Proviamo a immaginare il momento del distacco definitivo come ha ben descritto alla Camera Lucia Bellaspiga: uscire dalla casa dove sei sempre stato e non per tornarci la sera, no: mai più.

Tiri la porta e delle chiavi non sai che fare: chiudere?

A che serve?

Domani stesso nelle tue stanze entrerà gente nuova, che non sa nulla della vita vissuta là dentro.

Ti porti dietro quello che puoi, poche cose, ma che valigia si prepara quando è per sempre?

Ciò che non potrai portare con te, che mai più riavrai, è la scuola che frequentavi, le voci degli amici, un amore che magari sbocciava, il negozio all’angolo, l’orto di casa, i volti noti, il tuo mare, il campanili, persino i tuoi morti al cimitero.

Addio Pola, addio Fiume, addio Zara.

I racconti sono spesso uguali: in una gelida giornata di bora, in un silenzio irreale rotto solo dai singhiozzi, nave Toscana si staccava dalla riva che era sempre più lontana.

Da laggiù la tua casa, la tua stessa finestra diventavano già quel dolore-del-ritorno che mai sarebbe guarito.

Da che cosa si scappava?

Dai rastrellamenti notturni, dalle foibe, dai processi sommari.

Dai massacri perpetrati in quelle regioni d’Italia dai partigiani jugoslavi nell’autunno del 1943 e di nuovo dal maggio del 1945, cioè quando il mondo già festeggiava la pace.

Se nel resto d’Italia il 25 aprile a portare la Liberazione erano gli angloamericani, nelle terre adriatiche facevano irruzione ben altri “liberatori”.

E iniziava il terrore.

Da Gorizia e Trieste fino giù a Zara dei colpi alla porta con il calcio del fucile preannunciavano l’ingresso dei titini e il rapimento dei capifamiglia, centinaia ogni notte.

Poi sparirono anche le donne, persino i ragazzini:

“Condannato”, si legge sulle carte dei processi farsa, in realtà fucilati a due passi da casa o gettati vivi nelle foibe, tanti nel mare con una pietra al collo.

Fascisti!

Così erano chiamati gli Esuli al loro ritorno in Patria, solo poiché fuggivano da un regime comunista, e il grave equivoco resta ancora oggi incancrenito in residue forme di ignoranza, che il Giorno del Ricordo vuole dissipare: gli italiani della Venezia Giulia uscivano da un’Italia che era stata fascista, esattamente come gli italiani di Roma, Trento, Napoli.  

I nostri nonni e genitori erano stati antifascisti o fascisti esattamente come tutti gli altri italiani.

Si usciva tutti, indistintamente, dalla stessa guerra: persa.

Nelle foibe furono gettati maestri di scuola, impiegati, carabinieri, guardie di finanza     [ come la GdF di leva Bongiovanni di Varese Bobbiate] medici, artigiani, operai, imprenditori, tutti, purché italiani o avversi alla nuova dittatura.

E quanti tra questi erano stati antifascisti!

Quanti partigiani anticomunisti.

Quanti preti: oltre 40.

Ricordo qui solo Don Francesco Bonifacio torturato a morte a 34 anni. Proclamato Beato da Papa Ratzinger che ha riconosciuto il suo martirio “in odium fidei”.

Ma c’è poi un secondo enorme equivoco in cui ancora oggi incorre chi non conosce la storia: “Di che vi lamentate? – dicono – L’Italia ha perso la guerra, era giusto che pagasse”.

Vero, ma tutta l’Italia era stata sconfitta, eppure per saldare i 125 milioni di dollari, debito di guerra dell’intera nazione, il governo utilizzò le case, i negozi, i risparmi di una vita, soltanto dei giuliano-dalmati.

Promettendo indennizzi poi mai erogati.

Vogliamo che almeno si sappia e che si studi a scuola?

Erano oltre un migliaio i presenti alla cerimonia che si è svolta la mattina di venerdì 10 febbraio, Giornata del Ricordo, al Monumento nazionale della Foiba di Basovizza: mancava purtroppo il Presidente della Repubblica, ma sono intervenuti numerosi politici di rilievo nazionale.

Alcune vivaci contestazioni sono state fatte al Sottosegretario agli Esteri Della Vedova, il quale in un passaggio ha definito la comunità italiana in Istria costretta all’esodo “una minoranza”.

Le cifre dell’esodo che ha svuotato la penisola istriana – puntualizza il numero uno dell’ANVGD – lo smentiscono: il 90% degli italiani decise di andarsene e città e villaggi rimasero disabitati.

La speranza che si sia trattato di un lapsus da parte di un rappresentante governativo che ha più volte dimostrato attenzione e sensibilità nei nostri confronti è vanificata dal fatto che la stessa dichiarazione sulla “ minoranza” della comunità italiana in Istria costrette all’esodo l’ho ascoltata nel discorso ufficiale alla Camera letto dal Ministro degli Esteri Alfano.

Ministro e Sottosegretario sono uomini d’onore; chi allora all’interno del loro Ministero prepara i discorsi mistificando la storia con posizioni negazioniste?

Oggi a tutti noi, nati prima e dopo l’esodo sulle due sponde dell’Adriatico ed alle nostre Associazioni tocca difendere una verità ancora non del tutto condivisa, con il sostegno forte e incondizionato delle Istituzioni, e vegliare perché il Giorno del Ricordo non diventi col tempo un appuntamento retorico, ma sia testimonianza sempre viva.