Eutanasia

Sarà nel successivo 1951 che l’Occidente scoprirà il cinema giapponese.
Allorquando a Venezia il mediocre (così era incredibilmente considerato in patria) e grandissimo regista/autore Akira Kurosawa presenterà ‘Rashomon’, vincendo d’impeto il premio che dal 1954 sarà definitivamente denominato Leone d’Oro.

È, peraltro, quella datata 1950 una delle edizioni di più alto livello del Festival Cinematografico lagunare.

Memorabili davvero almeno i tre film americani proposti.
‘Bandiera gialla’ (‘Panic in the Streets’), di Elia Kazan, con un intenso Richard Widmark e il debuttante (?) Jack Palance.
‘Tutti gli uomini del re’ (‘All the King’s Men’), che Robert Rossen aveva girato l’anno prima ricavandolo dalla omonima opera letteraria di Robert Penn Warren.
Ed è in proposito impossibile non ricordare che il personaggio nell’occasione tanto fortemente rappresentato sullo schermo da Broderick Crawford (che vincerà l’Oscar insieme alla coprotagonista Mercedes McCambridge) era assolutamente ispirato al potente uomo politico della Louisiana – anni Venti e inizio Trenta – Huey Long, ‘The Kingfish’.
Nientemeno che ‘Giungla d’asfalto’ (‘The Asphalt Jungle’), capo d’opera del magnifico John Huston ricavato dal romanzo di William Riley Burnett dal medesimo titolo.
Film che accredita finalmente Marilyn Monroe e consente al dominatore dei noir tra i Quaranta e i Cinquanta Sterling Hayden di esprimere al meglio la sua tormentata, fragile possanza.
È in questa onorevolissima compagnia che il regista francese Andrè Cayatte si imbatte presentando il suo ‘Giustizia è fatta’ (‘Justice est faite’).
È la prima volta questa nella quale sul grande schermo ci si interessa al concetto stesso di ‘eutanasia’?
Non ne ho la certezza.
È, comunque, la prima volta – per l’importanza dell’opera (che vincerà la kermesse culturale) e il contesto autorevole – che il tema viene presentato e sviluppato articolatamente.
Scritta dallo stesso Cayatte e da Charles Spaak, la sceneggiatura della pellicola racconta di un processo penale nel quale l’accusa sostiene ‘semplicemente’ l’intento criminale della donna autrice di un omicidio, mentre la difesa oppone che a tale tragico e definitivo atto essa si sia determinata per amore intendendo porre fine alle indicibili sofferenze fisiche e morali del marito malato terminale.
Sarà successivamente in un numero notevole di film che la tormentata questione occuperà sceneggiatori e registi.
Amando oltremodo il bellissimo ‘Verso il sole’ (‘The Sunchaser’) di Michael Cimino, non posso qui non ricordare come – lo si scoprirà in un flashback – a giustificare l’operato, apparentemente senza senso, del protagonista Woody Harrelson sia l’azione di amorevolissima eutanasia compiuta da bambino per porre termine ai tormentati patimenti del malatissimo fratello maggiore che lo supplicava di in cotal modo operare.
Ecco, se in linea assoluta non posso che essere contrario all’eutanasia concependola al massimo come atto interruttivo delle cure, non certamente quale azione tesa a provocare la morte, come mi comporterei – mi chiedo senza dare risposta – messo a confronto con una tanto infelice realtà?
Mauro della Porta Raffo