Daria Menicanti

Nel 2014 cade il primo centenario della nascita della ‘Daria’ che qui celebriamo proponendone un intenso e partecipato ritratto vergato dal poeta, scrittore e traduttore Silvio Raffo. – MdPR

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Daria Menicanti.

Ovvero “la Daria”.

La più schiva, la più divinamente indifferente, la più lontana da qualsiasi forma di protagonismo di tutte le figure femminili e non della nostra poesia contemporanea.

Fiumana di madre, milanese d’adozione, angloamericana (ma anche fortemente ‘classica’) di formazione; dopo qualche breve peregrinazione da Livorno a Crema a Pavia, ha vissuto gli anni della sua maturità a Milano, dove ha insegnato e fatto la preside di scuola media.

Daria Menicanti
Daria Menicanti

La sua partecipazione alla poesia è come la sua partecipazione alla vita: totale, e insieme obliqua, ‘laterale’; intensissima, è insieme casuale, periferica.

‘Inquilina di un labile racconto’, ama parlare di sé come un’ombra fuggitiva (“Passo / di fretta come un ricordo esclusivo: / sul marciapiede un nero d’ombra”); è sostanzialmente è sempre stata – una donna sola, “una dispari” (nonostante l’esperienza matrimoniale e ‘filosofica’ con Giulio Preti), “una che va vestita come capita, / contenta del poco, / di rari amici scontrosi, / una dispari / felice di bere alla brocca / della sua solitudine”.

Nella sua famiglia c’è sempre stata la scherzosa abitudine di chiamare ogni sorella con un nome d’animale.

Dario è “il grillo” (anche per il suo corpo “geometrico ed allegro”). Ma se dovessimo identificarla nel regno vegetale sarebbe senz’altro, come sa chi la conosce bene, una quercia.

Il marito di Lalla Romano, la sua più intima amica, la chiama “l’integrità”.

Si è laureata in Estetica (con Banfi, come l’amica e quasi coetanea Antonia Pozzi), ma la sua dimensione etica è di una robustezza impressionante.

Nessuna concessione a ideologismi, a mode, a programmi di sorta o sperimentalismi di facile consumo.

Daria scrive per un bisogno privato (“la disperata esigenza”), per l’urgere in lei di una grazia segreta che aspira a farsi voce con discrezione e dosata spezzatura, nel modo più naturale (ma anche più consapevole) di questo mondo.

Parla di sé, dei suoi momenti di essere, riflette sulle assurdità e sulle meraviglie della vita, di cui torna sempre, dopo ogni screzio, a innamorarsi.

E testimonia uno ‘status’ squisitamente moderno: quello dell’intellettuale puro, del poeta osservatore incantato/disincantato dal reale che lo circonda.

 

In giro me ne vado come un cirro

silenzioso color ombra. Mi piace

stare alto sui tetti a galleggiare

guardando. Io mi sento il palloncino

fuggito dal suo grappolo: una cosa

ironica leggera e all’apparenza felice.

 

(“Poeta”)

 

Anche grazie all’affettuoso interessamento di Vittorio Sereni, pubblica il suo primo libro per il Tornasole di Mondadori; il titolo, “Città come”, riecheggia un verso di Valery Larbaud (“Ricordo città come si ricordano amori”) e coi suoi quadretti accesi, di una grazia fulminante, le vale il Premio Carducci; le raccolte successive – “Un nero d’ombra” e “Poesie per un passante”, entrambe nello ‘Specchio’, contrassegnate dalla stessa nuda semplicità e sincerità ma di respiro più ampio e più mosso – le accordano pure qualche riconoscimento (come il Premio Gatti-Bologna per il pubblico), ma la sua autonomia intellettuale e il suo riserbo la mantengono costantemente lontana da ogni scintillio di cronaca mondano-letteraria.

La sua passione per l’insegnamento e l’esercizio privato della lettura, della poesia e della traduzione (l’ottima versione in italiano del romanzo di Sylvia Plath “La campana di vetro” non è che un esempio fra gl’innumerevoli) continuano a distinguerla, in un panorama sempre più contaminato di bovarismo, come la “splendida assente”.

La severa, perfino rigida disciplina della libera pensatrice non si accompagna però al fiero cipiglio della moralista.

Manlio Cancogni, che traccia di lei un garbato ritratto su “La Fiera letteraria” nel ’68, la definisce “ridente e piangente”.

Daria si riconosce più nel primo participio.

E’ in effetti un riso quasi democriteo quello che increspa così simpaticamente le sue labbra, già in “Poesie per un passante”, ma via via sempre più nei volumi successivi, pubblicati con editori sempre più discreti (e scarsamente distribuiti): “Ferragosto” – una galleria di ritratti grotteschi e beffardi – con Lunarionuovo, l’amabile bestiario di “Altri amici” con la Forum, e infine il leggiadro almanacco di “Ultimo quarto” con Scheiwiller.

Un riso salvifico, di superiore ironia: col passare degli anni, del “tempo fraterno”, Daria si sente sempre più vicina a Orazio che a Catullo, più incline all’epigramma che all’elegia.

 

Da molto tempo ho smesso

di sperare qualcosa qualcuno

di credermi immortale.

Quella che mai pensavo

mi sta sopra.

 

(“Vecchiaia”)

 

Eppure, è impossibile non riconoscere e non amare nei suoi versi, accanto al registro ironico, talora sarcastico del “castigare ridendo mores”, la tenerissima presenza della “cetra simonidea”, di quella malinconica leggera e invincibile, struggente come il canto stesso, che non abbandona mai il saggio musico (pensiamo a Saba, a Sbarbaro, a Penna) se della vita ha distillato tutte le “incomparabili essenze” mantenendo la purezza del sentire senza malizia e il piacere del riscoprirsi ogni giorno “in pace con la stagione”, filo d’erba e camaleonte.

L’opera poetica di Daria Menicanti attende, comunque, il suo esegeta.

Benché la sua poesia, come nota acutamente Solmi, appartenga nei due poli fondamentali di amore – morte al filone ‘eterno’ della poesia di tutti i tempi, essa costituirà anche, per il lettore attento e per l’esegeta che ci auguriamo, un campo d’indagine particolarmente stimolante dal punto di vista del lessico e della metrica.

Soltanto suoi sono, nella poesia post-ermetica, quei saporosi squarci colloquiali, quegli attacchi repentini immediatamente coinvolgenti, come in un “conversare ininterrotto” con l’interlocutore-amico-complice-onnisciente ma sempre desideroso di nuove notizie; soltanto sue quelle sapienti commistioni di umile e sublime di prosaico e di lirico; e ancora il fraseggiare diaristico, le voci dialettali e i neologismi fioriti da un’incontenibile ‘ardenza’, il lessico variopinto e insieme asciutto delle poesie-in-forma-di-lettera, degli “scherzi” che si alternano agli epigrammi sul filo di una umorosa, mai pesante o polemica visione del caleidoscopio “vortice dei vivi”, sempre nel segno di una umanissima simpatia-sintonia con l’altrui solitudine; la traboccante cultura, infine, che sostiene senza mai gravarli i suoi versi modulati come su uno spartito musicale contro ogni apparenza di istintività o spontaneismo.

I sei libri di Daria Menicanti vanno letti – e riletti – con la stessa attenzione e onestà con cui sono stati scritti: sono infatti soprattutto questo, libri onesti e coerenti, in cui la leggerezza si sposa con la necessità e l’arguzia con la meditazione; in essi non c’è un verso superfluo, e vi si può scoprire un’infinità di accenti.

Se un critico, smanioso di classificazioni ed etichette proporrà forse di inserire l’opera di Daria Menicanti in qualche anfratto della “linea lombarda” o del minimalismo lirico post-moderno, a me piace semplicemente pensare al canzoniere della Daria, oltre che come all’espressione di una delle voci più schiette e più vive del Novecento, come al semplice e possente ‘concerto del grillo’ di cui parla Emily Dickinson nell’ultima delle sue poesie:

 

The cricket is her utmost

of elegy, to me

 

Il grillo è il sommo vertice,

per me, dell’elegia

 

Il rapporto di Daria Menicanti con Milano, la città in cui ha scelto di vivere e in cui ha di fatto vissuto gli anni più proficui e ricchi – di cultura, di scuola, di amori, amicizie e poesia – è potenziato di continuo da un contatto profondo, “simpatetico”, con l’humus più affettivamente significativo di angoli, quartieri, ma soprattutto delle più disparate creature: quella fauna umana sconosciuta, brulicante per strade, mercati, parchi e giardini con cui il “poeta camaleonte” si confonde tanto volentieri.

Fra questa umanità logorata dalle intemperie della vita, coraggiosa e indomita nel suo moto perpetuo – di vagabondaggio, di lavoro, comunque di ricerca – fra questa umanità “on the road” di volti ignoti ma curiosamente familiari ai suoi occhi miopi eppure acutissimi, Daria si sente a volte “una dispari”, “una senza fardello”: è consapevole della sua meravigliosa e disperata libertà, ma sa anche di essere nient’altro che “un nero d’ombra” che scivola per le strade “avare di foglie” affollate di “case infinite” – da via Vitruvio, dove abita all’ultimo piano di un antico splendido palazzo (“la casa muta e calda che mi attende”), a via Tadino, dove gli ultimi ambulanti ritirano dalle bancarelle la merce invenduta, fino alla “dolce curva” dei bastioni di Porta Venezia dove il netturbino la saluta con l’affetto di un amico (“Dei guanti che gli ho dato resta ancora / un anello di lana intorno al polso”) o in via Brera, per una delle rare visite alla grande amica Lalla Romano (molto più frequenti tra loro le telefonate).

Si tratti dei magri profili degli alberi di un viale “fuori porta alla città” o della “festosa legione dei fiori annuali, dei minuti giardini”, della grottesca, sinistra sagoma d’una “scavatrice clamorosa”, di una facciata di chiesa che improvvisamente sboccia come un miraggio dalla nebbia o dei pallidi Santi del Duomo “irti e sottili all’aria albina” o di un’umbratile “alzaia superstite” dei “fumosi Navigli”, è sempre fedelissimamente lo spirito della Milano più vera e meno “mondana” quella con cui Daria si identifica e che traspare dalle sue poesie più coinvolgenti, dove esterni e interni si fondono in un’unica armonica cassa risonante di pulsazioni vitali, di calde correnti intimamente comunicative, di una sana, “lombarda” complicità ruvida e insieme gioviale.

Come in certe poesie dialettali di Delio Tessa o Franco Loi, è il “genius loci” che respira in questi versi, che dal dialetto rifuggono a favore di un italiano schietto e leggiadro, colloquiale eppure di un’elegantissima letterarietà.

Silvio Raffo