Champagne: ’Vino dei re’ che fu… contadino!

Scrive Jean Verdon, nel suo lavoro ‘Bere nel medioevo’ che “l’espressione ‘vino di champagne’ appare solo nel Seicento”[1][1].

In effetti, il vino spumante francese conosciuto oggi in tutto il mondo come Champagne si concretizza nel diciassettesimo, quando il monaco benedettino Dom Pierre Pérignon, cellario dell’abbazia di Hautvillers-Sur-Marne, perfezionò il procedimento che prevedeva una seconda fermentazione in bottiglia per rendere frizzante il vino fermo.

Tuttavia ciò che questo contributo si prefigge è quello di provare a riflettere – partendo da alcune fonti (nono e decimo secolo) che potrebbero far emergere una possibile origine del celebre spumante nei vini che caratterizzarono la regione della Champagne – su quale possa essere realmente il carattere di esclusività che oggi racchiude il celebre vino francese.

Dai reperti archeologici viene suffragata l’idea secondo la quale furono gli antichi romani a introdurre, nel primo secolo d. C. vigne nella regione Champagne; vigneti che, sviluppatisi durante l’epoca romana, si mantennero anche nell’alto Medioevo.

Con il crollo della dominazione di Roma, furono i signori ecclesiastici (vescovi e abati) e laici a prendere in mano la viticoltura in seno ai regni merovingi.

I vescovi, come gli abati, avevano bisogno dei vini per le celebrazioni eucaristiche e, in questo senso, la religione cristiana contribuì a diffondere al vino il suo valore[2][2].

Una delle prime attestazioni riguardanti il vino della zona della Champagne risale al sesto secolo (533) e si tratta del testamento del vescovo di Reims Remigio, dove si legge:

 

“Vitis plantam super vineam meam ad subnem positam simili modo communitem possidebunt com Melenium […]. Tu vero, fili fratris mei, Lupe episcope tuo dominio vindicabis Nifastem et matrem suam Mutam, vineam quoque, quam Enias vinitor colit […]. Tibi autem nepos meum, Agricola, presbiter, vineam quam Mellaricus Lugduni facit, tibi dono […] vineam quam Bebrimodus facit, tibi eatenus derelinquo, ut diebus festis et omnibus dominicis sacris altaribus mea offeratur oblatio atque annua convivia Remensibus presbiteris et diaconibus prebeantur. […] Delegoque benedictae fïliae meae Helariae diaconae ancillam nomine Noram et vitium pedaturam, quae suae iungitur vineae, quam Cattusio facit, dono […]. Vitalem colonum liberum esse iubeo et familiam suam ad nepotem meum Agathimerum pertinere; cui vineam dono quam posui Vindonisse et meo labore constitui”.[3][3]

Com’è possibile vedere, nel testamento, di cui si hanno due versioni – la più breve è inserita nella ‘Vita di San Remigio’, scritta da Incmaro vescovo di Reims – vengono menzionati, tra i lasciti, numerose tipologie di vigne.

Viene peraltro mostrata l’esistenza di due zone vinicole: un vigneto ‘urbano’, che cresceva nelle immediate vicinanze della residenza vescovile e uno ‘rurale’, situato sulla costa meridionale della valle dell’Aisne a Laon.

Infine, il testo evoca i primi produttori di Champagne, non già dei lavoratori occasionali, ma una sorta di professionisti della futura tradizione vinicola della regione.

Da ciò è possibile desumere che già nel sesto secolo venivano prodotti nella zona della Champagne, numerose varietà di vino.

Sempre all’interno della ‘Vita’, si legge che fu proprio il vino di Reims che consentì al re dei franchi Clodoveo di affermare in Europa, al tempo stesso, la potenza del suo popolo e la vera fede cristiana: al momento della battaglia contro Alarico, re dei visigoti, cristiano anch’egli ma seguace della corrente ariana, Clodoveo ricevette dal vescovo di Reims Remigio che lo aveva battezzato, la benedizione di un fiasco di vino, da cui finché ce ne fosse stato, avrebbe tratto forza ed entusiasmo per combattere.

Come per magia, racconta la ‘Vita’ che il re ne bevve con tutta la famiglia reale, unitamente a una gran moltitudine di popolo; nel consumare in abbondanza il vino, tuttavia si accorsero che esso non calava mai, ma che sgorgava sempre dal fiasco come da una sorgente.

Naturalmente il vino bevuto condusse i Merovingi alla vittoria[4][4].

Anche in questa contingenza, pur non venendo menzionato un vino particolare, è plausibile supporre che si trattasse di un vino della zona di Reims.

La diffusione dei vini nella regione della Champagne, presso Epernay, viene ancora suffragata anche da altre fonti successive: il polittico dell’abbazia di Saint-Remi di Reims (collocabile a metà del nono secolo) non manca infatti di riferire l’esistenza di diverse varietà di vino della zona, senza tuttavia specificarne la tipologia[5][5].

Mentre sempre nello stesso periodo, in una lettera (risalente all’853) del Vescovo di Pardulfo di Laon, che ricoprì tale incarico dall’847 all’857, indirizzata a Incmaro vescovo di Reims vengono menzionati diversi vini provenienti da quella regione.

Nell’epistola, infatti, Pardulfo raccomanda a Incmaro alcuni accorgimenti dietetici e cita alcuni vini:

 

“Vinum quoque non validissimum, neque debile, sed mediocre sumendum est: hoc est non de summitate montis, neque de profunditate vallium, sed quod in lateribus montium nascitur, sicut in Sparnaco in monte Ebonis, et in Calmiciaco ad Rubridum, et in Remis de Milsiaco atque Calmiciaco”.[6][6]

 

Pur essendo né troppo forte né troppo debole, viene descritto come un vino medio proveniente da ‘Sparnaco’ (Epernay), mentre il “monte Ebonis” potrebbe essere identificato con il monte Bernon che domina Epernay.

Da queste poche fonti menzionate – ve ne sono plausibilmente molte altre, ma sarebbe necessario un lungo periodo di ricerca per menzionarle tutte –, si arguisce che la conduzione familiare dell’abbazia di Reims e dei suoi arcivescovi concernente i vigneti e i vini della zona era ben strutturata: tutto sommato si può addirittura affermare che il vescovo di Reims fu uno dei primi viticultori del Medioevo.

Del resto, come letto, nel testamento di Remigio si parla di vignaioli (“vinitior”), che nonostante l’anonimato e la condizione di servitù in cui si trovavano, rappresentavano pur sempre un mestiere.

Ma non bisogna dimenticare che il Medioevo fu, al pari dell’antichità, una civiltà del vino: bevanda sacra e profana, per uomini umili e potenti; bevanda spirituale, liquido pieno di fuoco vitale che apportava allora come oggi nell’alimentazione un supplemento energetico non trascurabile.

L’area della città di Reims, i cui vini non avevano ancora attraversato i confini della Champagne, recava in sé già le potenzialità che avrebbe espresso appieno nei secoli successivi, presentandosi come una zona ben strutturata di vigneti e viticultori.

Com’è stato anticipato nella prima parte di questo breve articolo, il termine ‘Champagne’ sarebbe comparso successivamente, nondimeno anche questi vini sembravano avere quella connotazione di esclusività (sia sufficiente ricordare il miracolo) che avrebbe caratterizzato il celebre vino spumante.

Tuttavia, per come è conosciuto e consumato oggi (emblema del lusso, prodotto d’élite), lo Champagne sembrerebbe aver poco a che spartire con questi ‘antenati’; in realtà sono numerosi i prodotti che assumono una determinata dimensione partendo da esigenze e finalità assai lontane dalle attuali.

L’origine di un vino, anche il più elegante ed esclusivo, risiede nell’incipit che va ricordato e rispettato, giacché – lo ricorda il filosofo Martin Heidegger – ogni grande cosa può avere solo un grande inizio e il suo inizio è sempre la cosa più grande.

D’innanzi a un diffuso atteggiamento di sfoggio nel bere e a una progressiva ignoranza nel consumo di determinati prodotti, dove è il prezzo pagato per un vino a sancire l’importanza di una persona, potrebbe essere d’aiuto riportare in vita frammenti di conoscenza altrimenti perduti.

Solo rivolgendo il pensiero all’origine dello Champagne è forse possibile comprenderne appieno il carattere di esclusività, che non sta nel valore economico o nell’immaginario collettivo a esso collegato: esso è infatti la fusione di ricerche naturalistiche, materiali, sensoriali (razionali), con entità immaginative e immateriali (metafisiche).

Tutto ciò che lo Champagne è oggi ha le sue radici nel passato: un passato ben diverso dal valore odierno.

Dimenticare tali radici è come bere senza punti di riferimento, senza assaporare la storia e l’evoluzione della bevanda, fatta di esclusiva semplicità e di semplice esclusività.

Per questo è necessario recuperare l’essenza dell’atto che si va compiendo nel rispetto di tutto ciò che esso (lo Champagne) nasconde.

Ben lontani dall’antichità, quando si beveva il vino come stimolo filosofico e psicologico, in quanto questo induce alla riflessione, oggi – come scritto – si beve per esibizione, senza quella curiosità su cui si fonda la continua e ininterrotta ricerca sull’uomo e sulla natura che ha consentito alla storia di svilupparsi arrivando a cogliere aspetti del reale incredibile.

Ma quanto scritto è solo una parte di ciò che si nasconde dentro e dietro lo Champagne, ‘vino dei re’ che fu… contadino.

Alle volte, l’antica pittura su tela, invecchiando, si fa trasparente.

Quando questo accade è possibile vedere le linee originali di certi quadri: sotto un vestito di donna trapelerà un albero, una barca che non naviga più in mare aperto.

Ora la pittura è invecchiata: qui si voleva tentare di vedere che cosa c’era una volta e che cosa c’è adesso.

Lorenzo Bellei Mussini

[1][1] J. Verdon, Bere nel Medioevo. Bisogno, piacere o cura, Bari 2005, p. 110.

[2][2] P. Racine, Vigne e vini nella Francia Medievale, in La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento (Atti del convegno, Monticelli Brusati – Antica Fratta 5-6 ottobre 2001), a cura di G. Archetti, Brescia 2003, p. 26.

[3][3] Hincmar, Vita sancti Remigii, éd. B. Krusch, MGH, Script. Rer. Merov. III, Hannover 1896, pp. 336-340.

[4][4] M. Montanari, Mangiare da cristiani: diete, digiuni, banchetti. Storie di una cultura, Milano 2015.

[5][5] Le polyptyque et les listes de cens de l’abbaye de Saint-Remi de Reims (IX-XI siècles), a cura di J. P. Devroey, Reims 1984, passim.

[6][6] Parduli episcopi Laudunensis ad Hincmarum Remensem, in Hincmar Opera, II, Opuscula et Epistolae, a cura di J. Sirmond, Parigi 1645, pp. 838-939.