C’era una volta il pugilato

La boxe è come la corsa.

Lo sport più naturale per l’uomo:tiri i pugni o muovi le gambe.

Poi, magari, migliori la tecnica.

Nella boxe soffri e senti dolore, nella corsa soffri ma non rischi di farti una faccia gonfia.

Oggi le maratone abbondano, anche in Italia.

I boxeur scarseggiano, la boxe è in decadenza: in Italia e nel mondo.

Con le corse guadagni, con la boxe guadagni sempre meno.

La natura e l’uomo hanno fatto la selezione.

Si dice che la boxe è in crisi o in disarmo.

Ma lo si dice da una vita.

Basta rileggersi riviste e articoli di pugilato già risalenti agli anni cinquanta.

Anche allora si parlava di crisi del pugilato e dei pugilatori.

Decade dopo decade, il ritornello non ci ha mai abbandonato.

Con una differenza: in quei tempi se ne parlava senza vedere il fondo del pozzo, di tanto in tanto spuntava il nuovo campione, la stella, il personaggio trainante.

Ora si comincia a vedere davvero il fondo.

Un antico campione come Erminio Spalla, primo nostro titolato europeo dei pesi massimi negli anni venti, personaggio dalle mille sfaccettature, pugile ma pure scultore, baritono, scrittore, attore, dettò la regola valida nei secoli.

Annota in un suo libercolo, “Per le strade del mondo”, dove il titolo è indicativo del personaggio: ”Il problema che richiede ad ogni pugilista la più esatta soluzione è questo: incassare più denaro che pugni.

Quando questo assioma comincia a rovesciare i termini, sorge per il pugilatore…il principio della fine”.

Oggi qualunque pugile, tranne pochissimi fortunati e bravi, rischia di prendere più pugni che danari.

Dunque…

E, forse, non è più neppur così vera quell’altra idea che Spalla rilanciava e che, per decenni, è stata più di una vox populi: “E’storia vecchia come il mondo che la forza fisica ha sempre suggestionato più della forza dell’ingegno….

Le lunghe mani di Carlo Magno lo fecero re prima del saper scrivere”.

Tesi confermata da Jack London: ”Preferirei di gran lunga essere campione del mondo dei pesi massimi che re d’Inghilterra, presidente degli Stati Uniti o Kaiser di Germania”.

Difficile pensare che oggi Obama la pensi allo stesso modo.

Una volta il campione dei pesi massimi era un ospite fisso alla Casa Bianca, la boxe apriva tutte le porte.

Oggi non apre nemmeno le palestre.

Non esistono più le ragioni (soprattutto economiche) per soffrire, faticare, allenarsi e costringersi ai sacrifici.

I migliori atleti americani vengono arruolati da baseball, football e basket, quelli di secondo taglio da atletica e nuoto, poi ci sono i pugili ed altro ancora.

Non esistono più le ragioni che ti spingevano al di là di un fattore economico.

Tiberio Mitri è stato un campione popolare in Italia, prima di chiudere una vita bruciata.

E raccontava di aver vissuto per la boxe come un uomo per un ideale.

Sottilizzava: ”Non cercavo il lucro, mi bastava il guadagno”.

Sandro Mazzinghi ha narrato di aver combattuto per battere la fame e mantenere una promessa alla madre:”Ti farò una regina”.

Ed ha mantenuto la promessa.

Nino Benvenuti ha sentito dentro di sé il fuoco che animava il padre al quale era stato impedito di combattere.

Marvin Hagler ha usato una sintesi estrema:”La boxe serviva a riparare i conti della vita”.

Ci sarebbero altri mille esempi, ma bastano questi a dimostrare che non ci può essere boxe, pugilato, noble art, ovvero voglia di combattere e scrivere meravigliose storie di ring se non alimentate da un incentivo superiore al danaro.

O almeno pari.

Lo sport ha una sua elite economica e di attrazione, che parte dal calcio o dalla formula uno, negli Stati Uniti dal basket e dal baseball: la boxe rimane nell’elite per il suo passato più lontano.

Il passato recente e il presente dicono, invece, che le categorie sono troppe, le corone mondiali e, in genere qualunque titolo, svalorizzate dall’eccesso di proposte.

In Europa non distingui più quale sia il vero titolo continentale.

Si gioca con sigle ed enti.

I campioni del mondo sono quattro o cinque, magari sei: basta che qualcuno si svegli la mattina e costituisca una nuova confraternita.

Non sai mai chi è il campione, con la “c” maiuscola.

In questa epoca è difficile citare tre grandi pugili da tutti conosciuti.

Le sigle hanno saccheggiato l’alfabeto… e la credibilità della boxe.

In Italia, poi, il fattore economico pesa di più, la federazione ha dimenticato di sostenere i professionisti, oggi vivono molto meglio i dilettanti che, però, non fanno vera boxe.

L’epoca delle macchinette segnapunti ha costituito la disintegrazione di qualunque credibilità del modo di combattere e tirare pugni.

Ora si è tornati indietro, ma i boxeurs dilettanti sanno distinguere fra l’autentica noble art con i suoi punti cardinali e l’obbrobrio a cui sono stati costretti per anni?

In Italia siamo rimasti con pochi pugili, nessun campione di livello, pochi maestri, pochi organizzatori.

Il professionismo, negli ultimi due anni, ha tentato una ripresa: dicono i numeri che sono state proposte quarantadue manifestazioni all’anno, centotre match titolati, ricavi per oltre un milione annuo.

Siamo alle briciole rispetto al passato.

La tv ha creato e disintegrato: per decenni ha fatto cullare gli organizzatori nella gestione a incasso garantito, ora paga anche dieci volte meno di quanto prometteva prima.

Gli organizzatori e i managers hanno creato per le Televisioni sfide improbabili, eccessivamente sbilanciate, spettacoli talvolta indecorosi, bastava ci fosse un’etichetta a salvaguardare la nobiltà dell’avvenimento.

Quando, invece, è la bontà dei pugili che nobilita la sfida.

Come capita in qualunque sport: conta la bravura degli atleti.

La boxe si è persa gran parte del suo pubblico anche per queste ragioni.

Si è persa i pugili perché produce meno fascino e meno riscontro economico.

Si dirà: ma i poveretti che si battevano per due soldi, ci sono sempre stati.

Le storie del ring sono ricche di journey men.

Ma pure a loro era riconosciuto un valore.

Oggi sul quadrato ci vanno anche le donne ed è l’unico sguardo al futuro: sono affamate, hanno voglia di conquistarsi zone di terreno riservate agli uomini, sanno sacrificarsi di più, cercano atavici riscatti.

Guardano un punching ball e ci vedono la faccia di un maschio, magari del marito, del fidanzato o del traditore.

E si scatenano.

Ecco perché sul ring non vanno disprezzate.

Tirano più pugni di quanti danari incassino.

E cercano di prendere meno pugni di quanti ne abbiano incassati nei secoli.

I cazzotti sono pugni imbottiti, ma sempre pugni.

Una volta il boxeur era un idolo, oggi rischia di essere un poveraccio.

Saverio Turiello, un altro meraviglioso personaggio dei ring, diceva:”La boxe è lo sport più bello del mondo: ti affascina e ti fa diventare uomo”.

E dimostra che la crisi della boxe è crisi di valori, non solo economici: l’uomo è cambiato, il pugilato è rimasto disarmato.

Riccardo Signori