Cento anni di Relatività: la nuova visione del mondo fisico concepita da Einstein

Nel 1905 Albert Einstein pubblica sulla prestigiosa rivista Annalen der Physik un gruppo di lavori che porranno le basi della fisica moderna e segneranno il superamento della cosiddetta fisica classica che aveva avuto in Galileo Galilei e poi in Isaac Newton i principali esponenti.

Uno degli articoli, dal titolo “Zur Elektrodynamik bewegter Körper” (Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento) contiene la formulazione della relatività ristretta a cui seguirà, dieci anni dopo, nel 1915, il lavoro sulla relatività generale “Die Feldgleichungen der Gravitation” (Le equazioni di campo della gravitazione).

Curiosamente la denominazione di “teoria della relatività” non fu scelta da Einstein che avrebbe preferito il nome di “Invariantentheorie” poichè l’aspetto più qualificante della teoria consiste nel fatto che le leggi fisiche sono ”invarianti in forma”, cioè la loro espressione non dipende dal sistema di riferimento inerziale (vale a dire in moto relativo a velocità e direzione costante, per il quale valgono le leggi della meccanica classica, diversa da quella relativistica) in cui sono descritte, in quanto la loro “forma” rappresenta la stessa realtà fisica nelle diverse coordinate dei vari sistemi inerziali.

Questo sarà il primo postulato della teoria della relatività ristretta.

 

Ma chi era questo sconosciuto ventiseienne, impiegato in un modesto ufficio di Berna, che osava da solo proporsi al mondo della fisica accademica con un insieme di lavori assolutamente originali e presto considerati fondamentali nella scienza del ‘900?

Einstein era nato nel 1879 a Ulm nell’allora regno del Württemberg dell’impero germanico; nel 1894 aveva interrotto gli studi al liceo Luitpold di Monaco dove la famiglia si era trasferita, per incompatibilità con la rigidità del sistema scolastico che appiattiva a suo parere ogni spunto creativo, ed aveva raggiunto la famiglia in Italia a Pavia dove il padre aveva cercato lavoro dopo il fallimento della sua ditta di apparecchiature elettriche.

Nel 1895 sostiene gli esami di ammissione al Politecnico di Zurigo ma malgrado gli ottimi risultati in fisica e matematica non viene accettato.

Completa allora i suoi studi liceali nella scuola di Aarau nel cantone di Argovia dove nel 1896 consegue la maturità con ottimi voti e può accedere al Politecnico iscrivendosi alla laurea in matematica e fisica.

Allo stesso corso si iscrive la serba Mileva Marič di cui Einstein si innamora e da cui avrà una figlia, partorita a Novi Sad nel 1902, di cui si perdono le tracce.

La bimba fu forse data in adozione o morì di scarlattina nella prima infanzia.

Einstein si laurea nel 1900; nel 1903 sposa Mileva da cui avrà altri due figli prima di separarsi e divorziare da lei nel 1914.

Nel 1901 acquisisce la cittadinanza svizzera e tenta invano di entrare come assistente al Politecnico.

Grazie ai buoni uffici del papà del suo amico matematico Marcel Grossman ottiene un posto all’ufficio brevetti di Berna come “assistente esaminatore” che viene poi stabilizzato nel 1903.

Il 30 Aprile del 1905 presenta la sua tesi di dottorato; nello stesso anno, definito l’“Annus Mirabilis” di Einstein, pubblica i lavori fondamentali sulla relatività ristretta con l’equivalenza tra massa ed energia, sul moto Browniano e sull’effetto fotoelettrico che gli varrà il premio Nobel nel 1921.

E’ l’inizio di una carriera che diventerà nel tempo strepitosa accompagnata da un cursus honorum incredibile.

Nel 1908 viene nominato “privat dozent” all’Università di Berna e l’anno dopo viene istituita per lui la cattedra di Fisica Teorica al Politecnico di Zurigo.

Dopo altre destinazioni ritorna in Germania nel 1914 come direttore del Kaiser Wilhelm Institute fino al 1932 e professore alla Università Humboldt di Berlino.

Con l’avvento del nazismo Einstein emigra negli U.S.A. dove lavora all’Institute for Advanced Studies a Princeton fino alla sua morte nel 1955.

 

Il punto di partenza della fisica moderna è la meccanica classica del XVII secolo formulata da Newton, e prosegue con importanti ma non fondamentali arricchimenti fino all’aggiornamento delle sue leggi nei primi vent’anni del XX secolo ad opera di Einstein.

La teoria gravitazionale di Newton resta valida ed esattamente corretta per tutti gli aspetti della nostra vita ordinaria e quindi nella maggior parte delle circostanze, cioè per velocità molto lontane da quella della luce, che è pari a circa 300.000 chilometri al secondo, e per campi gravitazionali deboli.

E’ solo per velocità prossime a quella della luce o per campi gravitazionali intensi che la teoria Newtoniana perde validità e deve essere sostituita dalle due teorie della relatività di Einstein.

Sembra che all’inizio lo stesso Einstein pensasse alla relatività speciale come ad una estensione della fisica newtoniana e non come ad un radicale mutamento di paradigma.

 

Con la scoperta delle geometrie non euclidee (Gauss, Lobacevskij) che detronizzano la geometria euclidea classica dalla sua posizione privilegiata di “summa” della razionalità scientifica (la cosiddetta “catastrofe euclidea”), il problema dello spazio si biforca in un problema matematico, da un lato, ed un problema empirico, cioè sperimentale, dall’altro, problema quest’ultimo che sarà risolto dalla relatività generale (TRG).

Con la formulazione dell’elettromagnetismo di Maxwell, si afferma anche una nuova consapevolezza critica circa l’inesistenza di segnali (cioè energia ed informazione) propagantisi con velocità infinita, esistenza data implicitamente per scontata nella fisica classica.

Tale consapevolezza apre anche un problema empirico del “tempo fisico”, problema che viene affrontato e risolto dalla relatività ristretta (TRR).

Alla fine dell’ottocento il grande fisico-matematico inglese James Clerk Maxwell era riuscito a comprendere in un’unica formulazione matematica i fenomeni elettrici e magnetici; dalla sua teoria risultava inaspettatamente che le perturbazioni elettromagnetiche viaggiavano sempre alla stessa velocità che si scoprì poi essere proprio quella della luce.

Einstein assume questo risultato nella TRR nel senso che la velocità della luce, indicata convenzionalmente con la lettera c, diventa un valore “assoluto”: comunque la sorgente luminosa si muova o l’osservatore si muova, il valore di c rispetto all’osservatore non cambia.

Questo è il secondo postulato della TRR.

Rivisitata a centodieci anni di distanza, la straordinaria origine concettuale della TRR è, da un punto di vista logico, abbastanza semplice.

Infatti l’inesistenza di segnali con velocità infinita ma, come dimostrerà proprio Einstein, al più con la velocità della luce (più in generale, delle onde elettromagnetiche) conduce alla fondamentale scoperta della “relativizzazione” e inevitabile “convenzionalità” della “simultaneità” temporale degli eventi fisici a distanza.

Più precisamente, l’unica possibilità di sincronizzare due orologi “A” e “B” a distanza, in particolare se in movimento inerziale relativo, per esempio ad un certo tempo dell’orologio “A” fermo nel punto spaziale “a” con l’orologio “B” che, a quel tempo, fermo o in moto inerziale, si trova nel punto spaziale “b”, è la seguente: inviare un segnale luminoso da “a” a “b”, dove uno specchio rifletta il segnale indietro fino ad “a”.

Con tale procedura si utilizza un solo orologio.

Si noti che utilizzandone due, in “a” e “b”, si introdurrebbe una circolarità logica perché la velocità del segnale da “a” a “b” , a questo punto dell’analisi, non può essere empiricamente (sperimentalmente) nota, dovendo richiedere due orologi che siano già sincronizzati!

Quindi la velocità del segnale può essere solo postulata.

Ciò è quanto fa Einstein, come già detto, con il secondo postulato della TRR: ”la velocità avanti-indietro (two ways) della luce è sempre pari a c”.

A questo punto Einstein introduce un’inevitabile “convenzione”: postula cioè che in queste condizioni, la misura del tempo di simultaneità dell’orologio situato nel punto “b”, sia pari alla metà del tempo di andata e ritorno del segnale partito da “a”.

In tal modo, almeno per i sistemi inerziali, anche la velocità della luce in una sola direzione (one way) risulta pari a c.

E’ allora facile vedere, ricorrendo alla fondamentale formulazione geometrica introdotta da Minkowski nel 1908, che risulta impossibile rappresentare in un unico spazio tridimensionale, costituito dall’insieme degli eventi spaziali fra loro simultanei, tutti gli spazi tridimensionali relativi a diversi osservatori inerziali in concordanza con la “convenzione” di Einstein.

E’ dunque proprio il problema della simultaneità a distanza conseguente all’inesistenza di segnali con velocità infinita, ad imporre la necessità di uno spazio-tempo a quattro dimensioni!

Infine va sottolineato che, mentre la “convenzionalità” della simultaneità a distanza evidenzia che il problema non ha una soluzione “fattuale”, la forma specifica della convenzione scelta influisce soltanto sulla semplificazione o complicazione della rappresentazione matematica e non ha conseguenze fisiche.

 

Tutte le altre caratteristiche “popolari” della TRR seguono dal problema della simultaneità a distanza, per esempio: (1) il tipico ritardo che si avverte durante un dialogo fra due conduttori televisivi uno in Italia e l’altro negli Stati Uniti.

Questo esempio è fondamentale per evidenziare la trasformazione che subisce la relazione tempo-causalità nel passaggio tra fisica classica e fisica relativistica: in questo caso i due conduttori sono causalmente sconnessi durante l’intervallo di evidente ritardo temporale perché nessuna azione fisica del conduttore italiano può raggiungere il conduttore americano con velocità superiore a quella delle onde elettromagnetiche fra Italia e Stati Uniti.

(2) L’inesistenza di moti fisici “assoluti” e quindi anche di “quiete” assoluta.

Non è possibile determinare lo stato di moto di un sistema inerziale con esperimenti di natura meccanica o elettromagnetica senza qualche riferimento diretto o indiretto con l’esterno.

Parlare di velocità o di quiete “assoluta” è un’affermazione priva di senso fisico.

(3) La contrazione delle lunghezze di regoli in moto relativo inerziale rispetto ad un altro sistema inerziale, e, analogamente, la dilatazione di intervalli temporali misurati da orologi in moto relativo inerziale.

(4) La impossibilità per una massa non nulla di raggiungere la velocità della luce.

In base alla legge di Newton, se noi fossimo in grado di correre a tale velocità potremmo raggiungerla ed in quel momento le oscillazioni del campo elettromagnetico, ci apparirebbero ferme e ciò non può avvenire nella fisica relativistica.

Sia che noi andiamo incontro a qualsiasi velocità anche elevatissima ad un raggio di luce o scappiamo in direzione opposta, la velocità dei fotoni che compongono il raggio di luce rispetto a noi sarà sempre la stessa e pari a c.

(5) La composizione relativistica delle velocità che è differente da quella classica.

Mentre nella nostra esperienza quotidiana vediamo che le velocità degli oggetti si compongono (ad esempio una macchina che venga incontro alla mia ha, per me che sto viaggiando, una velocità pari alla somma della sua e della mia velocità), secondo la relatività ristretta, ripetiamo per velocità prossime a c, la composizione delle velocità non è più quella newtoniana ma obbedisce ad una formula relativistica.

(6) La famosa equivalenza tra massa ed energia (E=mc²) pubblicata in un altro lavoro di Einstein sempre del 1905, suo “annus mirabilis”.

La relazione E=mc² dimostra che massa ed energia sono strettamente correlate e convertibili tra loro.

La massa dinamica di un oggetto massivo cresce all’aumentare della sua velocità: ad esempio un muone, particella elementare con la stessa carica dell’elettrone ma più pesante, che viaggi al 99,9% della velocità della luce, è quasi ventidue volte più massivo del muone in quiete, cioè della sua massa a riposo.

Avvicinandosi alla velocità della luce la massa dinamica cresce senza limiti e quindi occorrerebbe una energia infinita per portarla alla velocità c.

Ne segue che gli unici enti che possono viaggiare alla velocità c sono quelli privi di massa a riposo come i fotoni, i mediatori della forza elettromagnetica.

(7) Il cosiddetto (falso!) “paradosso dei gemelli”, che è un esperimento concettuale dove si immagina un gemello che viaggi nello spazio a velocità prossime a c mentre l’altro resti a terra.

Alla fine del viaggio il gemello che torna, per la dilatazione degli intervalli di tempo, è realmente più giovane dell’altro.

In questo caso, tuttavia, per tornare insieme al gemello fermo a terra il gemello che si allontana dalla terra deve subire due accelerazioni, una in avvio e l’altra all’inversione di rotta, e quindi non essere più inerziale.

Per comprendere a fondo il (falso) paradosso, occorrono alcuni chiarimenti.

Innanzitutto, due postulati aggiuntivi, e precisamente: a) la contrazione delle lunghezze per un moto accelerato dipende soltanto dalla velocità relativa rispetto ad un sistema inerziale fissato e non dalla accelerazione; b) lo stesso dicasi per la dilatazione degli intervalli temporali.

In altre parole, l’accelerazione svolge soltanto la funzione di riportare in quiete relativa i due sistemi di riferimento, senza avere alcun ruolo causale per gli effetti di contrazione e dilatazione.

Ma allora, se l’accelerazione non ha un ruolo causale e, come già detto, contrazioni e dilatazioni sono simmetriche fra i sistemi inerziali, perché può sussistere una reale differenza temporale fra i gemelli da cui la falsità del paradosso ?

Per comprendere appieno questo punto è necessario chiarire il ruolo della quadri-dimensionalità spazio-temporale in questo problema.

 

Consideriamo per semplicità una rappresentazione bi-dimensionale dello spazio-tempo a 4 dimensioni e descriviamo un sistema inerziale di riferimento con due assi cartesiani ortogonali: l’asse orizzontale x i cui punti rappresentano tutti i punti dello spazio ordinario tridimensionale e l’altro verticale come asse dei tempi indicati con coordinate ct da un orologio A solidale col sistema inerziale, nella sua origine O cioè al tempo t=0.

Consideriamo ora un orologio B fermo nello spazio nel punto E1 ad una distanza d dall’origine O del sistema (sempre a t= 0) e sincronizzato con l’orologio A.

Ad un successivo tempo t1 dei due orologi, B, essendo fermo, si troverà sempre alla distanza d da A (cioè con coordinata spaziale uguale a d) ma in un punto diverso E2 dello spazio-tempo, con coordinata temporale pari a t1.

La linea che unisce i punti E1 ed E2 rappresenta un tratto della cosiddetta linea di universo (world-line) dell’orologio B mentre la linea di universo dell’orologio A (fermo nell’origine O) coincide con il tratto di pari lunghezza sull’asse dei tempi.

Se B fosse in moto con velocità costante v (minore di c) verso destra, cioè per valori di x crescenti, il tratto della sua linea di universo sarebbe rettilineo ed inclinato verso destra con un angolo dipendente dalla velocità v.

Se l’orologio fosse invece accelerato la sua linea di universo sarebbe un arco di curva.

Ora,la lunghezza dei tratti che stiamo considerando per B è proporzionale (con costante uguale a c) al cosiddetto tempo proprio di B.

L’orologio B, come qualunque altro orologio, misura pertanto il cammino percorso da B lungo la propria linea di universo.

Invece la linea di universo di un raggio di luce è una retta inclinata di quarantacinque gradi rispetto all’asse x; pertanto tutte le linee di universo di oggetti fisici massivi devono avere inclinazione (in ogni loro punto) maggiore di 45 gradi con l’asse spaziale x.

I punti (meglio gli “eventi” dello spazio-tempo) collegati ad O da linee inclinate meno di 45 gradi con l’asse spaziale, non possono essere raggiunti da O mediante linee di universo di oggetti massivi né da raggi di luce (onde elettromagnetiche in generale): tali eventi sono causalmente sconnessi da O, precisamente come i due conduttori televisivi sopra menzionati.

La relazione tempo-causalità qui sommariamente accennata costituisce la differenza forse più importante fra fisica classica e fisica relativistica anche dal punto di vista filosofico.

E’ ora fondamentale osservare che la linea di universo, come tutte le altre proprietà geometriche della descrizione quadri-dimensionale, a differenza delle descrizioni analitiche in termini di coordinate, rappresenta proprietà fisiche oggettive cioè indipendenti dai sistemi di riferimento, il che giustifica la predilezione di Einstein per il titolo “Invariantentheorie”.

Ciò posto, dovrebbe essere chiaro che, nel caso dei gemelli, la vera causa della differenza di età finale dei due gemelli o, meglio, dei tempi segnati dai loro orologi, (che sono fisicamente identici) sta nel loro differente cammino spazio-temporale: la linea di universo del gemello fermo sulla terra è (idealmente) una linea retta mentre quella del gemello accelerato è un linea curva e quindi di lunghezza diversa.

La differenza è dunque crono-geometrica e perciò oggettiva!

L’effetto è stato verificato sperimentalmente con misure di grande precisione usando orologi atomici e confrontando il tempo segnato da orologi a bordo sia di aerei che di satelliti con identici orologi fermi a terra: al ritorno gli orologi che avevano volato segnavano un tempo di qualche miliardesimo di secondo inferiore rispetto a quello misurato a terra.

Tale risultato evidenzia anche il fatto peculiare che l’orologio è uno strumento quadridimensionale (in effetti l’unico!) poiché misura gli intervalli di tempo lungo il proprio cammino spazio-temporale o “tempo proprio” che è l’unico “vero tempo” relativistico.

Occorre sottolineare che non sussiste una uguale fenomenologia per le lunghezze spaziali, come è mostrato da un altrettanto falso paradosso, dovuto al fisico austriaco Wolfgang Rindler.

Esso mostra che, dopo il ricongiungimento di due sistemi inerziali mediante accelerazioni intermedie, una contrazione reale delle lunghezze di regoli rettilinei di misura non avviene affatto ma, piuttosto, l’essenza della fisica relativistica vi si manifesta con una deformazione spaziale del regolo accelerato, spiegabile con il fatto che, a causa della finitezza della velocità massima di propagazione degli effetti fisici, non possono esistere corpi rigidi nella relatività ristretta (la rigidità di un corpo materiale presuppone idealmente che un impulso applicato ad un estremo si propaghi a velocità infinita a tutto il corpo).

Infine l’insieme di tali considerazioni mostra che la relatività ristretta è propriamente una “teoria del tempo fisico”, come la relatività generale sarà una “teoria dello spazio-tempo fisico” (1).

 

Vediamo con alcuni esempi come gli effetti della TRR comportino risultati, comprovati da una enorme massa di verifiche sperimentali, che sono molto diversi rispetto a quelli calcolabili con la fisica classica ed a prima vista sorprendenti in quanto lontani dalle nostre percezioni intuitive.

Alcuni esempi danno l’idea dell’entità di questi effetti relativistici.

Sappiamo che i muoni, in stato di quiete in laboratorio, hanno una vita media di due milionesimi di secondo, dopodiché si dissociano in altre particelle.

Ma se i muoni vengono fatti viaggiare dentro un acceleratore al 99,5 per cento della velocità della luce, la loro vita media misurata dai ricercatori fermi in laboratorio, si allunga di dieci volte.

I muoni cosmici, che viaggiano a velocità prossime a c, data la loro brevissima vita media, secondo la fisica Newtoniana dovrebbero percorrere solo circa seicento metri prima di disintegrarsi, mentre noi a terra li vediamo attraversare tutta l’atmosfera e raggiungere i nostri rivelatori, cioè la loro vita ci appare molto più lunga.

A sua volta un osservatore ideale solidale col muone vedrebbe contratta la propria distanza dalla terra.

Un altro esempio di contrazione delle lunghezze è il seguente: se la mia automobile, lunga 4,8 metri sfrecciasse (teoricamente) a 900 milioni di chilometri all’ora (circa l’84 per cento della velocità della luce), un amico fermo al semaforo misurerebbe una lunghezza soltanto di 2,3 metri.

Per velocità molto inferiori, l’effetto diviene trascurabile; ad esempio se consideriamo il caso della terra che ruota attorno al sole alla velocità di 108.000 chilometri all’ora, un osservatore fermo sul sole la vedrebbe accorciata di appena una decina di centimetri.

Con la relatività ristretta Einstein aveva raccolto in qualche modo un frutto maturo, infatti la trattazione matematica dei fenomeni spazio-temporali per velocità prossime a c era stata già affrontata dal grande matematico francese Henry Poincaré e dal fisico olandese Hendrik Lorentz, ma ambedue questi scienziati erano rimasti confinati in spiegazioni che chiamavano in causa anche l’etere, una sostanza invisibile già immaginata senza entusiasmo da Newton, che avrebbe riempito l’intero universo e si supponeva indispensabile per trasmettere la forza elettromagnetica.

Einstein in seguito ammise il contributo di questi ed altri scienziati che si erano avvicinati alla formulazione della sua teoria e ne riconobbe il merito.

 

Il caso della relatività generale è notevolmente diverso: è stato un lavoro di sorprendente novità ed originalità, una conquista intellettuale che forse solo un genio come Einstein poteva realizzare.

Due anni dopo l’”annus mirabilis”, Einstein, mentre preparava un saggio che riassumeva la sua teoria della relatività, si pose il problema dell’estensione della sua teoria, valida solo per i sistemi inerziali, anche ai sistemi sottoposti ad accelerazioni (tipicamente un’automobile dove premendo l’acceleratore aumento la velocità). Cominciò anche a riflettere sulla forza di gravità che Newton aveva splendidamente codificato con poche leggi che permettevano di spiegare in modo accurato il moto dei corpi nello spazio, ma la cui vera natura era rimasta oscura ed indecifrabile.

In una lettera a Richard Bentley, Newton aveva scritto “Che la gravità sia qualcosa di innato, di inerente ed essenziale alla materia, sì che un corpo possa agire a distanza su di un altro attraverso il vuoto, senza la mediazione di qualche altra cosa in virtù della quale, e per mezzo della quale, l’azione a distanza o la forza possa essere trasportata da un corpo all’altro, è per me un’assurdità così grande da farmi credere che nessun uomo il quale abbia una reale consapevolezza nelle materie filosofiche possa mai farla propria.

La gravità deve necessariamente essere causata da un agente il quale agisca in modo costante secondo certe leggi; ma se questo agente sia materiale o immateriale è questione che lascio decidere al lettore” (2).

 

Nel 1907, mentre lavorava ancora a Berna all’ufficio brevetti, Einstein ebbe l’idea fondamentale che gravità e moto accelerato fossero equivalenti localmente, cioè non vi fosse differenza in una regione limitata di spazio-tempo, tra un osservatore soggetto al campo gravitazionale ed uno che stesse accelerando.

Gli effetti locali della gravità e dell’accelerazione dovevano quindi essere manifestazioni aventi la stessa origine, un “campo” universale che rendesse conto dei due fenomeni.

La relatività generale include la gravità ed estende la validità degli assunti della relatività ristretta a qualsiasi osservatore locale, sia inerziale che accelerato.

Einstein lavorò in modo ossessivo alla sua nuova teoria concependo la gravità in un modo nuovo, introducendo nella fisica complesse tecniche di calcolo grazie all’aiuto dei più grandi matematici dell’epoca; il suo fu essenzialmente un lavoro solitario e spesso disperato, con approcci e formulazioni rivelatesi poi errate od imprecise, fino poi, nel 1915, a presentare una teoria chiara, completa e pronta alle verifiche sperimentali.

Einstein alla fine fu talmente soddisfatto del suo lavoro da affermare che, se fosse stato sbagliato, gli sarebbe dispiaciuto per l’occasione sprecata dal Creatore.

La relatività generale dimostra che la gravità non è una forza a distanza che attrae i corpi in uno scenario immutabile di spazio e di tempo, ma è la conseguenza della curvatura dello spazio-tempo: il campo gravitazionale è una distorsione del tessuto spazio-temporale provocato dalla materia e dalla energia.

Lo spazio non è lo sterminato ed anonimo fondale Newtoniano dove agiscono i vari corpi materiali ma è parte integrante delle loro interazioni.

Einstein lo immagina come un gigantesco mollusco flessibile in cui sono immerse le masse presenti nell’universo che lo deformano e lo incurvano.

La struttura dello spazio-tempo è la “causa” per cui la terra gira attorno al sole; non ci sono forze a distanza, la curvatura dello spazio-tempo, generata dalle masse presenti, le “obbliga” a seguire una determinata traiettoria calcolabile con grande precisione.

Se lo spazio si incurva, data la connessione spazio-tempo, anche la misura del tempo fisico ne viene influenzata, ad esempio in alta montagna gli intervalli di tempo sono dilatati rispetto a quelli al livello del mare (come confermato da misure accuratissime) poichè la massa della terra distorce lo spazio-tempo quanto più ci si avvicini alla superficie terrestre.

Tutto l’impianto della teoria è basato su un’intuizione apparentemente elementare: lo spazio-tempo ed il campo gravitazionale sono la stessa cosa.

Einstein, che aveva considerato fino ad allora la matematica in secondo piano rispetto alle intuizioni della fisica, dovette constatare che invece gli era necessaria non solo per descrivere le leggi della natura, ma per scoprirle.

Si trattava infatti di trovare le equazioni matematiche che governano la struttura dello spazio-tempo o meglio della sua metrica, cioè essenzialmente il campo inerziale-gravitazionale, scoprendo come questo agisce sulla materia dicendo come deve muoversi ed a sua volta determinando come la materia genera il campo gravitazionale nello spazio-tempo dicendo allo spazio-tempo come curvarsi.

Le relazioni spaziali della geometria Euclidea non sono più valide per un osservatore in moto accelerato e quindi anche in un campo gravitazionale: Einstein dovette ricorrere all’aiuto del suo amico matematico Marcel Grossmann per affrontare le complesse geometrie non euclidee degli spazi curvi appoggiandosi alle teorie sviluppate nei primi decenni dell’ottocento dal grande matematico Carl Friedrich Gauss per le superfici curve bidimensionali e generalizzate a spazi curvi a tre o più dimensioni dal suo allievo Bernhard Riemann.

Grossmann indirizza Einstein, a corto di strumenti matematici adeguati per descrivere la sua teoria, sui lavori del matematico italiano Goffredo Ricci Curbastro il quale, in collaborazione con Tullio Levi-Civita, aveva scritto un fondamentale trattato sul cosiddetto calcolo differenziale assoluto (la moderna geometria differenziale).

Einstein ne coglie immediatamente le potenzialità e l’algoritmo di Ricci diventerà il linguaggio di base, a lungo cercato, per l’elaborazione della relatività generale.

Einstein riconoscerà il contributo dell’italiano e volle conoscerlo personalmente durante un suo viaggio in Italia nel 1921.

Alla fine di Giugno del 1915 Einstein, consapevole di essere arrivato quasi alla fine dei suoi sforzi, tenne una serie di letture sui vari aspetti della relatività generale all’università di Gottinga, famosa per la sua scuola di matematica guidata da un matematico eccezionale, David Hilbert.

Einstein fu particolarmente zelante nello spiegare a Hilbert le problematiche della sua teoria e fu soddisfatto di averlo convinto della bontà delle sue conclusioni.

Anche Hilbert fu entusiasta e si mise subito al lavoro per approfondire le proprietà delle equazioni matematiche che avrebbero completato la formulazione della relatività generale.

All’inizio di ottobre Einstein venne a sapere che Hilbert stava risolvendo alcuni problemi di calcolo della teoria che, malgrado gli ultimi due anni di tentativi, Einstein non era riuscito a superare.

Da una parte Einstein sentiva che Hilbert si stava avvicinando alla stesura corretta delle equazioni, dall’altra si era impegnato a presentare a novembre la sua teoria in una serie di quattro seminari all’Accademia Prussiana di Berlino, e quindi lavorò forsennatamente per arrivare in tempo alla forma definitiva del suo lavoro.

La mattina del suo terzo seminario, quando finalmente aveva trovato la formulazione corretta delle sue equazioni e ne aveva confermato la validità calcolando lo spostamento anomalo del perielio dell’orbita di Mercurio pari a quarantatre secondi di arco ogni secolo esattamente come misurato dagli astronomi, un effetto inspiegabile con la teoria di Newton, ricevette da Hilbert un lavoro che era molto simile al suo.

Si affrettò a rispondergli, riferendosi all’accordo dei suoi calcoli con i dati sperimentali sull’orbita di mercurio, dicendo che “nessuna teoria gravitazionale aveva ad oggi conseguito questo risultato”.

Hilbert rispose con grande signorilità congratulandosi con Einstein senza rivendicare alcuna precedenza.

Oggi ancora si discute su quali elementi della matematica usata nella relatività generale siano stati scoperti prima da Hilbert che da Einstein.

Hilbert, nella versione finale del suo lavoro “parallelo” a quello di Einstein intitolato “I fondamenti della fisica”, dirà che le sue equazioni differenziali sono in accordo “ con la magnifica teoria della Relatività Generale stabilita da Einstein”, aggiungendo che “Einstein aveva fatto il lavoro e non i matematici” tirandosi così fuori da ogni disputa di priorità.

In effetti, come scrive il fisico Carlo Rovelli “La teoria della Relatività Generale, per Einstein, non è un insieme di equazioni: è un’immagine mentale del mondo, poi faticosamente tradotta in equazioni”(3).

Per dissipare la freddezza che si era creata fra i due grandi scienziati, Einstein scriverà in seguito una bella lettera a Hilbert dicendo “ C’è stato un momento in cui è sorto fra noi qualcosa come un malumore, la cui origine non voglio analizzare più.

Ho combattuto l’amarezza che me ne è derivata e l’ho fatto con completo successo.

Di nuovo penso a Voi con una amicizia senza nubi e Vi chiedo di fare lo stesso con me.

E’ davvero un peccato se due compagni come noi, che sono riusciti a costruire una strada fuori dalle meschinità di questo mondo, non possano riuscire a trovare altro che motivo di gioia l’uno nell’altro” (4).

 

Se la teoria di Einstein ci dice come si incurva lo spazio avvicinandosi ad una massa, ne segue che nelle vicinanze di un corpo massivo un raggio di luce, che ha massa dinamica anche se non massa a riposo, dovrà subire una deflessione misurabile.

E’ quanto deve avvenire quando la luce proveniente da stelle lontane passa molto vicino al sole per arrivare sulla terra; per osservare la deviazione dei raggi luminosi occorre fare le misure durante un’eclisse altrimenti l’effetto non è visibile a causa della luce diurna.

L’astronomo inglese Arthur Eddington compie questa misura durante l’eclisse del 29 maggio 1919.

Il 6 novembre dello stesso anno, dopo mesi di accurate analisi delle foto scattate durante l’eclisse, fu annunciato in una seduta della Royal Astronomical Society di Londra che le previsioni di Einstein fondate sulla relatività generale, erano state confermate.

Einstein divenne immediatamente famoso ben oltre il ristretto mondo scientifico; il “Times” di Londra del 7 novembre 1919 titolava a caratteri di scatola “Rivoluzione della scienza – Una nuova teoria dell’universo – Rovesciate le idee di Newton”.

In realtà la straordinaria conferma sperimentale della teoria di Einstein fu un punto di svolta forse più da un punto di vista sociologico, dei media, che da quello puramente scientifico.

La prima guerra mondiale si era conclusa da poco e, come scrisse il grandissimo fisico inglese Paul Dirac “ E’ facile capire le ragioni di questo tremendo impatto.

Abbiamo vissuto una guerra terribile e molto seria …

Ognuno ha desiderato dimenticarla.

Ed allora la relatività è apparsa un’idea meravigliosa che conduce a nuovi domini del pensiero.

E’ stata una fuga dalla guerra …

La relatività era un soggetto sul quale ognuno si sentì competente a scriverne in modo genericamente filosofico” (5).

Molti intellettuali si approprieranno dell’idea della relatività senza averne compreso il significato fisico, discutendone possibili implicazioni in aree dove non era applicabile; si parlerà di relatività in alcune teorie dell’arte e perfino in psicologia, ed analogamente si cercherà in modo improprio di estenderla a problemi etici e filosofici.

Ad esempio, il filosofo spagnolo Josè Ortega y Gasset, appoggiandosi alla teoria di Einstein, fonderà il “perspettivismo”; sicuramente la diffusa ed errata interpretazione della relatività come eliminazione della realtà oggettiva, ha influenzato in modo distorto la cultura meno attenta con idee che si riferivano alla relatività einsteniana senza avere nulla a che vedere con quella teoria.

Se ci fu un grande clamore pubblicitario sulla figura di Einstein, non così accadde per la relatività generale che rimarrà per parecchi decenni un po’ in disparte rispetto ai successivi impetuosi sviluppi della fisica quantistica.

Già negli anni venti e trenta susciterà diffidenze e critiche, anche di natura politica come quelle di alcuni fisici della Germania nazista che la definivano spregiativamente fisica giudaica rispetto alla corretta fisica ariana (6).

Una rapida successione di scoperte astronomiche negli anni sessanta del secolo scorso provocò poi una rinascita per la teoria di Einstein legata alla constatazione della presenza nell’universo di oggetti di massa fortemente compatta in cui la gravità è elevatissima e quindi gli effetti della relatività generali diventano molto significativi e misurabili.

Si scoprirono i quasar (quasi-stellar radio sources), nuclei galattici luminosissimi simili a stelle e poi le pulsar (pulsating radio-star), radiosorgenti pulsanti che sono stelle di neutroni dove la forza di gravità prevale su quella elettrica modificando e compattando gli atomi.

Si iniziò a considerare l’esistenza dei “buchi neri” , oggetti cosmici generati da stelle che, esaurito il proprio combustibile, collassano su se stesse per effetto della gravità contraendosi al punto che la densità di massa locale arriva ad incurvare talmente lo spazio-tempo che nulla può fuoriuscire, neanche la luce, e tutto quello che si trova entro una superficie spazio-temporale detta l’“orizzonte degli eventi”, resta inesorabilmente intrappolato. Inoltre avvicinandosi dall’esterno a tale superficie gli intervalli di tempo si dilatano illimitatamente.

Il concetto di buco nero fu previsto teoricamente, usando le equazioni di Einstein, dall’astronomo tedesco Karl Swarzschild mentre prestava servizio militare in Russia durante la Grande Guerra (morirà nel 1916), ed approfondito nel 1939 da Julius Robert Oppenheimer, futuro direttore del progetto Manhattan per la realizzazione della bomba atomica, ma fino a circa cinquanta anni fa non si pensava che questi aggregati ultradensi di materia con masse pari anche a milioni di masse solari potessero esistere realmente.

La descrizione, lo studio e le ricerche nel campo dell’astrofisica su questi corpi celesti condotte con tecniche sempre più raffinate e precise in questi ultimi decenni, hanno confermato le previsioni della relatività generale e ne costituiscono la migliore conferma.

Misure accurate hanno permesso di valutare lo spostamento verso il rosso (redshift) delle radiazioni elettromagnetiche dovuto al campo gravitazionale che agisce sulla luce mediante uno “stiramento” della lunghezza d’onda che, nelle frequenze del visibile, sposta la radiazione verso la zona rossa dello spettro, parimenti l’effetto del “gravitational lensing” cioè la deflessione dei raggi luminosi per effetto di corpi di grande massa come i buchi neri, che permette di vedere oggetti dietro tali masse con una sorta di effetto “lente”, è stato accuratamente misurato ed utilizzato anche per valutare le caratteristiche dei buchi neri celati all’interno delle galassie e, in particolare, nel loro nucleo centrale.

In vista di una costruenda teoria della gravitazione quantistica si suppone che, analogamente a quanto accade per le altre forze fondamentali della natura come ad esempio l’elettromagnetismo, i processi gravitazionali siano interpretabili come dovuti all’emissione o assorbimento di particelle mediatrici o portatrici che costituiscono i “quanti” di eccitazione del campo che descrive l’interazione.

Come i fotoni sono i “mediatori” del campo elettromagnetico, per il campo gravitazionale è stata ipotizzata l’esistenza del gravitone.

Attualmente sono in corso sofisticatissimi esperimenti per evidenziare l’esistenza delle onde gravitazionali.

La relatività generale ci dice che gli effetti gravitazionali non sono avvertiti istantaneamente in qualunque zona del cosmo come discendeva dalla teoria Newtoniana, occorre che prima lo spazio-tempo si deformi.

E questo avviene nel tempo impiegato dalle onde gravitazionali, che viaggiano alla velocità della luce, per raggiungere l’oggetto interessato.

Le perturbazioni od increspature nello spazio-tempo dovrebbero essere generate da eventi cosmici violentissimi come la collisione di buchi neri o di stelle di neutroni, o da una radiazione gravitazionale proveniente dalla nascita dell’Universo simile alla radiazione cosmica di fondo nel campo delle microonde originatasi a seguito del Big Bang, rivelata nel 1965.

La scoperta delle onde gravitazionali, di cui i gravitoni sarebbero i “mediatori”, sarebbe l’ennesima conferma della validità della teoria della relatività generale concepita da Einstein esattamente cento anni fa.

 

Dopo il suo lavoro sulla relatività generale Einstein si dedicò senza successo a sviluppare una teoria unificata, che comprendesse in un’unica formulazione gravità ed elettromagnetismo.

Continuò anche a criticare alcuni aspetti di quella fisica quantistica che lui stesso aveva contribuito a sviluppare, in particolare l’interpretazione del fenomeno dell’”entanglement” cioè la dipendenza istantanea e senza mediazione dello stato quantico di ogni costituente un sistema quantistico dallo stato degli altri costituenti a qualunque distanza si trovino.

Il 17 aprile 1955, mentre preparava un discorso per onorare il settimo anniversario della nascita dello stato di Israele, Einstein fu colpito da una improvvisa emorragia causata dalla rottura di un aneurisma dell’aorta addominale.

Portato al Centro Medico Universitario di Princeton rifiutò il trattamento chirurgico asserendo che aveva vissuto la sua vita ed era contento di accettare il suo destino.

Aveva detto “Voglio andarmene quando lo desidero.

Non ha senso prolungare la vita artificialmente.

Ho fatto la mia parte, è tempo di andare.

Lo farò elegantemente”.

Einstein morì al Centro Medico la mattina successiva, all’età di settantasei anni.

 

Francesco Cappellani

Ringraziamenti. Sono grato al Prof. Massimo Pauri, compagno di lontani studi e di vita, per i commenti e l’accurata revisione ed integrazione scientifica del testo.

 

1-   Massimo Pauri “Spazio e tempo” Dizionario delle Scienze Fisiche vol. V, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1995

2-   Citazione riportata in: Brian Greene “L’universo elegante” Einaudi, 2000

3-   Carlo Rovelli “ La realtà non è come appare” Raffaello Cortina Editore, 2014

4-   Citazione riportata nella referenza (3)

5-   Citazione riportata in: Helge Kragh “Quantum generations” Princeton University Press, 1999

6-   Francesco Cappellani “Fisica Ariana e fisica Giudaica” Dissensi e Discordanze, marzo 2015