Caso Moro: già 10 anni fa un regista aveva capito tutto

Propongo il testo che l’amico Luciano Garibaldi  mi ha inviato e che ha pubblicato di recente su www.ilsussidiario.it. Le righe che seguono sono state vergate alla luce di ‘rivelazioni’ che per il rapimento di Aldo Moro farebbero pensare ad una regia dei servizi segreti russi e/o americani. – MdPR

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Cia o Kgb?

Sono passati trentasei anni dal sequestro di Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana che voleva portare i comunisti al governo, e l’interrogativo si pone con sempre maggiore insistenza.

Chi c’era dietro i brigatisti scalzacani guidati da Mario Moretti?

I servizi segreti americani o quelli sovietici?

O tutti e due, inesorabilmente d’accordo nel togliere di mezzo quel democristiano testardo che aveva preso sul serio l’abile frase propagandistica di Alcide De Gasperi: «La DC è un partito di centro che guarda a sinistra»?

Gli schermi televisivi, le pagine dei quotidiani e quelle dei settimanali hanno dato ben poco spazio al racconto di un ex ispettore di polizia che ha rivelato all’Ansa come in via Fani, a protezione dei killer delle Brigate Rosse, vi fossero due agenti dei servizi segreti.

Aldo Moro
Aldo Moro

Un po’ il bis di quanto accadde dieci anni fa, quando la cosiddetta «grande stampa», la magistratura e persino i legali cui la famiglia Moro si era rivolta per far riaprire le indagini, ignorarono la più esplosiva ipotesi avanzata fino ad allora sulla fine di Moro: quella contenuta nel film di Renzo Martinelli «Piazza delle Cinque Lune».

Martinelli è di sicuro uno dei registi più coraggiosi del cinema italiano.

Basterebbe ricordare i suoi due film-denuncia come «Vajont» e «Porzus», dedicati rispettivamente alla tragedia della diga che uccise oltre duemila persone in Veneto, e alla strage dei partigiani monarchici ordita e attuata dai partigiani comunisti nel 1944 in Carnia.

Tra l’altro si tratta di spettacoli mozzafiato perché Martinelli aggiunge, al suo amore per la verità storica, una rara maestria professionale che non fa rimpiangere giganti del cinema come Hitchcok.

Il suo film sul caso Moro fu presentato nel 2003 al Festival del cinema di Venezia e subito confinato nell’ «index filmorum prohibitorum», nonostante contenesse rivelazioni a dir poco sensazionali. Ci limitiamo a ricordarne due:

–   contrariamente a quanto si era affermato fino ad allora (e si continua ad affermare oggi), in via Fani non vi fu alcun tamponamento, da parte di un’auto dei brigatisti, della macchina su cui viaggiava la scorta di Moro;

–   sempre contrariamente a quanto sostenuto nei rapporti di polizia e nelle sentenze della magistratura, non è vero che gli assalitori spararono sulla scorta soltanto da sinistra, in quanto il maresciallo Leonardi, che viaggiava sull’auto su cui si trovava Moro, fu raggiunto da una serie di colpi partiti da destra, cioè dal marciapiede, mentre l’autista fu fulminato con un solo, preciso colpo alla testa.

Ebbene,  mentre l’«Alfetta» di scorta fu crivellata con ben 92 colpi in soli quindici secondi (segno che gli assassini spararono a volontà), la stessa cosa non era possibile nei confronti della Fiat «130» su cui viaggiava Moro in quanto non si poteva certo correre il rischio di uccidere lo statista democristiano.

Ed ecco dunque entrare in scena due killer professionisti dalla mira infallibile, che uccidono autista e maresciallo lasciando incolume Moro, onde poterlo trascinare in prigionia e iniziare così la messinscena della cosiddetta «trattativa» tra Stato e BR.

E queste sono solo alcune delle sensazionali rivelazioni contenute nel film di Martinelli.

Eppure, come si è detto, «fin de non recevoir», ossia, come se il film non fosse stato girato.

Poi, tre mesi dopo «Piazza delle Cinque Lune», uscì sugli schermi il film di Bellocchio «Buongiorno notte».

E via con i panegirici.

Perché?

Ma perché Bellocchio aveva dipinto i rapitori di Moro come si voleva (come la sinistra voleva) che fossero: cioè degli idealisti, convinti di poter fare la rivoluzione, degli illusi che avevano, sì, sbagliato, ma poi si erano ravveduti, dei poveri pirla.

Ebbene, anche se non fa piacere essere in sintonia con uno dei fondatori delle Brigate Rosse, è di sicuro interesse riportare alcuni brani di una intervista concessa giusto dieci anni fa da Alberto Franceschini, già fondatore delle BR assieme a Renato Curcio e suo braccio destro (all’epoca del sequestro Moro era in galera assieme al suo capo), al giornalista Ulisse Spinnato Vega, dell’Agenzia Clorofilla.

Franceschini ricordò Mino Pecorelli, il giornalista assassinato in piazza delle Cinque Lune (da qui il titolo del film di Martinelli) e affermò: Pecorelli, prima di morire, disse che sia gli Stati Uniti sia l’Unione Sovietica volevano la morte di Moro.

Bisognava rispettare gli accordi di Yalta, cioè la spartizione dell’Europa tra i vincitori della Seconda guerra mondiale: un accordo al quale Moro si era sempre opposto, sia prima sia durante il sequestro, ritenendo ormai superata la «strategia» di Yalta e volendo a tutti i costi coinvolgere il PCI nel governo del Paese: dargli cioè posti e prebende in cambio di una opposizione addomesticata.

Moro giocava politicamente per mantenersi al potere e per portare avanti il «compromesso storico», che non piaceva agli americani e ancor meno ai russi.

Un eurocomunismo con al centro il Pci avrebbe infatti portato sconquasso nell’Europa dell’Est.

Ma Breznev non era Gorbaciov e non lo permise, non diede il minimo spazio di apertura.

Ed ecco perché Moro doveva morire.

In ogni caso, né la CIA né il KGB avrebbero potuto portare a compimento la sua eliminazione senza l’assenso dell’altro.

Dunque, tutti e due i servizi segreti erano coinvolti.

«Secondo me», ancora Franceschini in quell’intervista, «un’operazione di grande portata come quella del sequestro Moro non la fai se non hai qualcuno alle spalle che ti protegge.

Ai miei tempi, noi militarmente eravamo impreparati.

Io conosco quelli che hanno portato a compimento l’operazione: gli unici ad avere un minimo addestramento potevano essere Morucci e Moretti.

Ma secondo me c’era una situazione generale di protezione, un contesto di cui erano consapevoli solo uno o due dell’intero commando».

E ancora: «Nel sequestro Moro furono utilizzate tecniche che non avevano nulla a che fare col nostro tipo di azione.

Ad esempio, Moro fu fatto salire in auto.

Noi, invece quando sequestrammo, nel 1974, il giudice Sossi, agimmo prima mettendo un furgoncino sotto casa sua: quando lui arrivò, uscirono fuori i nostri, lo presero e lo buttarono nel furgone, chiudendolo poi in un sacco.

Quindi si spostarono verso di noi che stavamo in una macchina, lo scaricarono col favore del buio serale e andammo via.

Invece, i rapitori di Moro che cosa fanno?

Lo fanno salire in macchina, arrivano in una piazza frequentatissima e lo trasferiscono su un furgone.

Tutto questo una ventina di minuti dopo il sequestro, in mezzo al traffico e alla folla.

Mi pare sinceramente impossibile che nessun testimone abbia visto.

Questo furgone, inoltre, non è mai stato trovato.

Morucci dice che fu lasciato in un parcheggio sotterraneo, lì fu tirato fuori Moro e quindi portato, forse sulla “Renault” rossa, in via Montalcini.

Il furgone non esiste, e questo sequestro non può essere certamente stato fatto così, non sta in piedi».

Ragionamenti che confermano in pieno l’ipotesi lanciata dal film di Martinelli.

I rapitori di Moro erano manovrati inconsapevolmente, ma qualcuno di loro agiva sapendo tutto, avendo coscienza di quel che faceva e di cosa c’era in ballo.

Non per niente, i numeri del caso Moro sono i seguenti: ventitre sentenze, centoventisette condanne, ventisette ergastoli.

Ma in galera non c’è più nessuno.

Tutti liberi ormai da diecine di anni.

Evidentemente, la CIA o il KGB (oppure la CIA e il KGB) hanno rispettato i patti.

Luciano Garibaldi