Carlo Linati, tra il verde-azzurro d’Irlanda
e la Lombardia

Pubblico assai volentieri il bel saggio su Carlo Linati a firma Maurizio Pasquero. Oramai molti anni fa, cercai di convincere i comaschi a ricordare il loro concittadino  con una qualche iniziativa. Proposi la creazione di un Premio simile a quello dedicato da Varese a Piero Chiara. Niente da fare. Chissà che oggi, d’improvviso, non si sveglino? – MdPR

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Oggi quasi dimenticato, nella prima metà del Novecento lo scrittore lariano fu una firma famosa, aperto alle avanguardie internazionali e insieme localista, sulla scia dei grandi autori lombardi, attento alle proprie radici.

 

«Egregio signore, mi hanno dato il suo indirizzo alla libreria italiana. Avendo visto le sue traduzioni delle opere di due miei amici, Synge e Yeats, […] ho pensato che forse il mio romanzo l’interesserebbe».

Chi scrive, in modo così diretto e persino naïf, è nientemeno che James Joyce, l’Irlandese errante, gran sovvertitore delle “belle lettere” e novatore indiscusso dell’ars scribendi novecentesca.

Destinatario, il comacino Carlo Linati, giornalista e scrittore di buona notorietà nella prima metà del secolo scorso.

Siamo alla fine del 1918.

Da Zurigo, ove s’era trasferito da Trieste a causa della guerra (era cittadino britannico, di un Paese in guerra con l’Austria-Ungheria), Joyce continua a tessere la sua tela di relazioni con le personalità più disparate del mondo letterario al di qua e al di là dell’Atlantico.

Sta finendo, con grandissima sofferenza, Ulysses.

L’anno prima, il suo romanzo d’esordio, A Portrait of the Artist as a Young Man, era finalmente uscito in volume a Londra: giusto a quello egli fa riferimento nella missiva allo scrittore lombardo, proponendogli di curarne la versione italiana.

Carlo Linati
Carlo Linati

Linati, come noto, nicchierà, giudicandolo inadatto al nostro pubblico («Confesso che non compresi subito il primo libro che Joyce m’inviò», ammise più tardi).

S’entusiasmò invece per Exiles, l’unica opera teatrale mai prodotta dall’Irlandese, presentata in italiano, col titolo di Esuli, sull’importante rivista letteraria milanese Il Convegno nel 1921.

L’attività di traduttore di Linati aveva a ogni modo suscitato l’interesse di Joyce, che infine gli offrì di occuparsi della versione italiana del suo opus magnum, appunto Ulysses.

Intimorito dall’entità e dalla difficoltà dell’impresa, Linati finirà per defilarsi, presentando solo un breve e poco convincente saggio di traduzione del “romanzaccione” (così Joyce soprannominava il suo libro), sempre sul Convegno, nel 1926.

L’attenzione per la nuova letteratura irlandese, robusta filiazione della Celtic Renaissance di fine Ottocento, era maturata nello scrittore lariano negli anni precedenti il primo conflitto mondiale, “complice” il compositore bergamasco Franco Leoni, beniamino delle scene londinesi che, intendendo musicare una pièce del defunto John Millington Synge, aveva interpellato Linati per l’eventuale stesura del libretto.

Questi ne tradusse il Playboy of the Western World (1907) col titolo, in verità un po’ strambo, de Il furfantello dell’Ovest, per poi proseguire a tamburo battente, sempre più colpito dalla forza innovativa degli autori dell’Irish National Theatre, con opere di William Butler Yeats e di Lady Augusta Gregory, “musa” del gruppo.

In esse, in un cammino di riacquisizione delle proprie radici, Linati coglieva atmosfere già respirate: «Come molti lombardi», scrisse, «io amo la natura e i paesaggi del Nord: le vaste selve goethiane piene di pensiero, le severe solitudini pervase da uno spirito luterano. (…)

E sono attratto dalle nebbie di Londra, come dall’arte e dalla poesia inglese, ricca d’umanità e da quel popolo, col suo spirito tra ironico e scanzonato tanto simile al nostro buon popolo lombardo, manzoniano e tutto probità».

Una simbiosi ancora più stretta la percepiva tra Padania e Hibernia, la verde Irlanda.

Tanto da fargli pensare vi fossero maggiori affinità tra un ambrosiano e un irlandese che tra un comacino e un partenopeo.

«Quanto a noi ‒ scrisse in Sulle orme di Renzo, uno dei suoi testi più incisivi ‒ penso che la nostra somiglianza cogl’irlandesi dev’essere originata da quei quattro secoli di dominio celtico che noi traspadani s’ebbe a comune con quelle genti e che dovettero lasciare nel nostro spirito un egual deposito di finezza e di spiritualità».

Tanto fulminea fu l’attrazione per quel mondo da indurlo a recarsi a Londra, nella tarda estate del 1913, onde incontrarvi personalmente Yeats, meglio approntare i lavori di traduzione e farsi un’idea “sul campo” della letteratura anglofona contemporanea.

Finì per diventarne una sorta di portavoce e nel periodo dell’entre-deux-guerres fu senza dubbio il più noto divulgatore degli “anglo-americani”, astrazione geo-culturale rispecchiata anche nel titolo di una sua fortunata silloge critica, Scrittori angloamericani d’oggi, pubblicata nel 1932 e rieditata in piena Seconda guerra guerra mondiale con le bandiere di due paesi nemici, Stati Uniti e Inghilterra, in copertina.

Irlandesi a parte, ebbe sempre molto caro il lavoro di traduttore e propose pregevoli versioni anche di opere di Swift, De Quincey, Poe, Dickens, Stevenson, Lawrence, James e altri ancora.

Nato il 25 aprile 1878 da un’agiata famiglia comasca, Carlo Linati trascorse un’infanzia serena sulle colline di Rebbio, a stretto contatto con la natura.

Per volontà del padre frequentò il prestigioso Convitto Cicognini di Prato, che aveva avuto D’Annunzio tra i suoi allievi; s’iscrisse poi, poco convinto, alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, ma finì per laurearsi nella gaudente Parma nel 1906.

Aveva intanto iniziato a frequentare i circoli letterari milanesi e insieme a Marinetti e a Notari nel 1903 fondò il settimanale di sport, turismo e cultura Verde e Azzurro, i colori dominanti del paesaggio lombardo.

Per niente attratto dalla carriera legale, Linati cercò assai presto di fare della letteratura la propria professione.

In gioventù, con la Scapigliatura ormai prossima a esaurire la sua breve fiammata, fu onnivoro divoratore di classici e romantici, naturalisti e decadenti d’ogni sorte e latitudine.

Emilio Praga gli disvelò per primo le possibilità di una scrittura innovativa e al tempo stesso calata nella “lombardità”.

Maurice Barrès, autore ultranazionalista famoso nella Parigi della Belle époque, gli instillò il culto della petite patrie, sostanziato dalla rilettura del “trascendentalista” americano Henry D. Thoreau, propugnatore di un radicale ritorno alla Natura.

Dopo i primi esperimenti d’inizio secolo, nei quali mescolò tutta la gamma delle suggestioni letterarie fin lì assorbite (in Porto Venere, del 1910, si coglie l’influenza di D’Annunzio ma anche, sotto traccia, quella di Dante), egli pervenne nel 1912, con l’opera breve Duccio da Bontà, a una propria sintesi originale in cui la lezione da Praga e dai “naturisti” si mescolava allo sperimentalismo linguistico ‒ aperto anche al dialetto ‒ di Carlo Alberto Pisani Dossi e di Gian Pietro Lucini («vero demiurgo delle lettere lombarde», lo definì il Nostro), due autori formatisi nell’ambiente scapigliato milanese e finiti essi pure, nei loro ultimi anni, sul lago di Como.

Duccio, il protagonista di questo Bildungsroman autobiografico ambientato nell’agro comense, è un adolescente che vive, nel susseguirsi delle stagioni, la propria educazione sentimentale per il tramite di una giovane contadina, Orsetta.

Nell’opera, l’intreccio è quasi inesistente (una “debolezza”, questa, congenita alla scrittura linatiana) ma vi emergono già in nuce le qualità di un autore capace di distillare dal paesaggio lombardo emozioni, colori e luci, di entrare in piena sintonia col suo milieu e di farne partecipe il lettore.

«Per me, accada quel che voglia quando ho il mio cielo, i miei alberi e il mio sole»: in queste parole di Duccio è tutto il senso della “fedeltà alla terra” di Linati, un’ininterrotta disposizione a riceverne i preziosi doni «con profondo affetto filiale», come ebbe a scrivere nelle pagine d’esordio de La regione dei laghi, deliziosa guida pubblicata nel 1931 con il concorso di altri noti letterati dell’epoca, tra cui Flora e Papini.

Approdato anche a La Voce, palestra di grande letteratura, egli affina il nitore del proprio stile ed elegge la “prosa d’arte” a suo genere prediletto.

Ne I doni della terra (1915) l’elaborazione della sua poetica è ormai compiuta.

La cifra stilistica è quella del bozzetto, del frammento lirico, tanto più intenso e vero quanto più egli tralascia gli iniziali vezzi estetizzanti e lessicali (in cui si coglie una sorta di ricerca dotta, un po’ sterile, di vetero-toscanismi) e lascia fluire le voci di quel “piccolo mondo antico” che tanto bene conosce.

Ancorché mal sopportasse l’etichetta di “frammentista” cucitagli addosso dalla critica, indubbiamente gli esiti maggiori dell’attività letteraria di Linati risiedono proprio nelle tante pagine dedicate alla miniatura naturalistica e al ritratto antropico, pagine che ritroviamo anche negli elzeviri che andava pubblicando con successo sulle terze pagine di grandi quotidiani nazionali quali il Corriere della Sera e La Stampa ma anche su L’Ambrosiano, La Provincia di Como, la Gazzetta ticinese e il Corriere del Ticino.

Nel 1919 dà alle stampe il già citato Sulle orme di Renzo, scritto negli anni di guerra, quando prestava servizio come ufficiale addetto alla censura sull’Altopiano di Asiago.

Significativo il sottotitolo, «pagine di fedeltà lombarda», motto che sottintende la sua volontà di seguire la strada di quelli che considera dei “padri”: Verri e Beccaria, Parini e Correnti, Porta e Grossi, Cantù e Cattaneo, Rovani e De Marchi, Dossi e Lucini oltre che, è chiaro, l’imprescindibile Manzoni.

Linati, «sull’orme del buon montanaro [Renzo Tramaglino], il simbolo più schietto della nostra terra», ripercorre l’itinerario dell’esule nella sua fuga da Milano verso l’Adda, in un appassionato viaggio alle fonti della “lombardità”, vagheggiando parentele e affinità con i suoi autori, evidenziandone «il dono di scoprire con l’arte loro la forma immanente di un paesaggio, di rivelare lo spirito della loro terra celato sotto le apparenze dei colori e la caducità delle stagioni».

Panteismo lombardo, è stata definita l’essenza di tale riuscitissimo Reisebilder, poco manzoniano in verità, gioioso e solare, per niente sfiorato da tematiche religiose.

Se al Manzoni s’ispira, Linati qui lo fa riferendosi al Manzoni “paesista”, quello dei capitoli XVI-XVII de I promessi sposi che, con le parole del suo grande amico pavese, don Cesare Angelini, «sono, stupendamente, tutto paesaggio».

Sulle orme di Renzo segna l’apice del Linati “localista”, il suo momento più originale, in parte replicato, lo stesso anno, in Nuvole e paesi che, insieme al coevo Natura e altre prose selvatiche, forma un prezioso trittico, esito irripetibile di una stagione in cui la sua arte si compone in una originale sintesi di sensibilità naturalistica, riscoperta dell’epos locale e scrittura creativa.

A cadenze annuali, quasi, seguirono poi innumerevoli altri volumi ‒ sempre più confezionati a partire da contributi inizialmente concepiti per giornali e periodici ‒ in cui slancio emotivo e originalità espressiva lasciarono via via spazio al “mestiere”, a una scrittura elegante e discorsiva ma talvolta stereotipata.

Furono, in ogni modo, quelli tra il 1920 e il 1930, gli anni dei suoi maggiori successi di pubblico.

Non mancano, in essi, momenti di felicità narrativa negli appunti lariani de Le tre pievi (1922), nell’inconsueto e un po’ “kiplinghiano” Storie di bestie e di fantasmi (1925), nel caldo e rievocativo Memorie a zig-zag (1929) e in Concerto variato (1933), significativo soprattutto per il cristallizzarsi, oltre che di uno stile ormai “patinato”, di un moralismo nostalgico fortemente critico nei riguardi della «stupida e caotica volgarità» contemporanea.

Alla modernità sguaiata e opportunistica, come si può leggere in un passo di Memorie a zig-zag, egli oppone «riserbo e pudore lombardo, bramosia di perfezione, scrupolosità dai piedi di piombo che i buoni meridionali prendono per pesantezza gotica e non è che stupenda devozione alla rettitudine, alla tradizione, purezza profonda, sdegno di viltà e di compromesso».

Tale vis polemica culminerà, nella fase finale della sua vita, nell’opera Decadenza del vizio ed altri pretesti, del 1941.

Vi fu un momento, nella seconda metà degli anni Venti, in cui Linati ‒ infastidito dalla sufficienza degli addetti ai lavori, bramoso di una “rivincita” ‒ volle cimentarsi con un genere letterario a lui estraneo, il “romanzo psicologico”.

Si gettò dunque a capofitto nella stesura di Due (1928), opera che definì “studio di una passione”, subito seguita dal melodrammatico La principessa delle stelle: entrambi stroncati dalla critica e presto dimenticati, macchinosi “congegni” che confermano i limiti della sua scrittura, ovvero il dato, com’ebbe a dire il buon Angelini, che «il ‘dono’ (il paese, la nuvola, l’albero) egli sapeva dominarlo e concluderlo, lentamente, laboriosamente, come un frutto maturato dal sole e dal vento; non la figura umana e le anime sceneggiate».

Linati tentò un’ultima volta, nel 1934, la carta del grande romanzo con Cantalupa (il nome della residenza di famiglia a Rebbio), uscita a puntate su L’Illustrazione Italiana e poi in volume.

Di seguito, forse appagato, tornò alle atmosfere dei suoi laghi e dei suoi monti (era divenuto, frattanto, firma di spicco del Touring per Vie d’Italia).

Passeggiate lariane, tra i pochissimi suoi libri ancor oggi ricordati e ristampati, è del 1939, lo stesso anno di A vento e sole, dedicato ai grandi viaggi, quelli in cui amava «vagabondare senza meta per regioni sconosciute, lo scoprir paese, e lasciarsi venir addosso la notte in un paese straniero».

In entrambi, come nel successivo Aprilante, del 1942, l’anziano autore è ancora capace di offrire alcune splendide gemme paesistiche, pervase da toni idilliaci e incipienti malinconie.

Ormai sessantenne, Linati si volge indietro, con rabbia e commozione, all’età dell’oro della sua giovinezza sul Lario: alla Natura, luogo dello spirito e della memoria, ai boschi, alle acque, ai sentieri che gli paiono ormai ‒ come scrive ne La stradetta di Blevio, uno dei primi itinerari delle Passeggiate ‒ «gli unici cammini possibili per un viandante che si rispetti, gli unici rifugi per il viaggiatore che vuol salvarsi dalla furia diabolica dei nostri tempi».

Come suo costume, Linati aveva anticipato le Passeggiate su un periodico: questa volta Broletto, rivista comense che nel breve arco della propria vita editoriale (1935-38), si rivelò una fucina di talenti.

Vi collaborò persino Ezra Pound con una propria rubrica sulla letteratura anglo-americana.

Linati conobbe l’autore dei Cantos nel lontano 1920 e intrattenne con lui un rapporto assiduo che, pur diradatosi via via, continuò fino agli ultimi suoi giorni.

Pound, per contro, lo stimava senz’altro: in una lettera del 1958 ricordava, grato, quanto solerte fosse stato «il povero vecchio Linati» nel divulgare presso di noi i nuovi autori di lingua inglese.

L’attività finale di Linati fu soprattutto marcata da traduzioni (Dickens, James e di nuovo Joyce), in ciò coadiuvato anche da Anna Silvia Bonsignore, una giornalista milanese di trent’anni più giovane di lui sposata nel 1941.

L’ultimo suo libro fu Milano d’allora (1946), struggente memoria della città ambrosiana a inizio secolo, redatto nei cupi giorni della guerra civile nel buen retiro di Rebbio.

Qui la morte, presagita, lo colse al tavolo di lavoro l’11 dicembre 1949.

Un anno dopo, omaggio postumo all’infaticabile anglista, Mondadori fece uscire per Natale la sua versione dello Stephen Hero di James Joyce, rimasta tale e quale in catalogo, nei “Meridiani”, fino al 1997.

Maurizio Pasquero