Büsserach o Tramelan?

Nel 1944 Piero Chiara si trovava in Svizzera.

Il 18 gennaio aveva saputo che il Tribunale Speciale Provinciale Fascista di Varese aveva emesso nei suoi confronti un mandato di cattura (sarà, successivamente, condannato a quindici anni di prigione) e, così, il 19 era a Lugano dove fu incarcerato per essere entrato nella Confederazione Elvetica senza autorizzazione.

Non essendo in possesso di alcun mezzo di sostentamento, visse, per qualche tempo, quella che era la vita comune a tutti gli internati, passando in vari campi, dopo essere stato in quello di raccolta e smistamento.

E così, fu prima a Büsserach, nel Cantone di Solothurn.

Poi, a Tramelan nel Giura Bernese e, da ultimo, nel campo disciplinare di Crête-Longue, situato tra Sierre e Sion.

Al termine di questa trafila, fu rimesso in libertà e riuscì a mantenersi da solo facendo il bibliotecario, in due o tre posti, e, poi, l’insegnante di italiano a Zug.

Ricavo queste notizie (che non fanno che confermare quanto Chiara mi ha raccontato a suo tempo) da quel bel volumetto intitolato ‘Piero Chiara per immagini’, pubblicato da Benincasa in occasione della seconda edizione, a Varese, del premio letterario intitolato al nome dello scrittore luinese.

E così, proprio scorrendo queste pagine, mi è tornato alla memoria un episodio della sua vita che, diceva, gli era capitato nel fatidico ’44, in uno di quei campi svizzeri di concentramento, e che mi raccontava con una strana forma di orgoglio quando capitava di parlare, per qualsiasi ragione, di quei tempi. (Per lo più accadeva, invero, quando si rammentava che il ’44 è il mio anno di nascita).

“Allora”, cominciava, con lo sguardo come perduto in lontananza, “mi è capitato qualcosa che non è accaduto a nessun altro, che io sappia.

Non ho mai sentito raccontare nulla del genere, nè ho letto romanzo, novella od altro in cui si parli di cosa simile. Insomma, mi hanno pisciato in faccia!” e sorrideva, soddisfatto, certamente, non tanto dell’atto in sè, quanto dell’unicità dell’accadimento che l’aveva coinvolto.

“Beh”, lo incalzavo, “Ma come diavolo è potuto accadere?” (Anche se, per caso, si era già ascoltata una qualche sua storia, conveniva sempre risentirla per verificare le varianti che apportava ogni volta al fine di arrivare nella sua mente alla stesura definitiva – quella più apprezzata dagli ascoltatori – che, quindi, poteva essere messa sulla pagina).

“Mi trovavo in un campo svizzero nella mia qualità di internato e, durante il giorno, si faceva opera di disboscamento per cui, alla sera, tutti eravamo molto stanchi e non vedevamo l’ora di andare a dormire.

Durante la notte, nelle baracche, non era in funzione la luce elettrica e non esisteva alcun altro impianto di illuminazione e per conseguenza, se ci si doveva alzare per una qualche necessità o ragione, lo si faceva muovendosi a tentoni.

Poco male, dopo tutto.

In breve tempo, avevamo imparato a conoscere ogni più piccolo recesso della camerata.

Per esempio, i gabinetti si trovavano appena fuori lo stanzone principale.

Due file di ‘turche’, a destra e a sinistra del corridoio, chiuse, per modo di dire, da una porta uguale a quelle che si vedono all’ingresso dei saloons nei films western, ma con una sola anta ed un catenaccio scorrevole all’interno.

Una notte in cui ero particolarmente stanco mi alzai dal letto per soddisfare una impellente necessità fisiologica (poteva capitare, con quel che si mangiava, di avere problemi del genere) e, quasi sonnambulo, mi trascinai verso le toilettes, infilandomi nel primo bugigattolo disponibile e sistemandomi alla meglio sulla ‘turca’.

Probabilmente, a causa della stanchezza o della fretta o della concomitanza di tutte e due, non mi venne in mente di chiudere la porta col catenaccio e, così, all’improvviso, mi ritrovai uno dei miei colleghi di avventura che, evidentemente altrettanto stanco ed assonnato, nel buio, aveva aperto la porta dietro la quale mi trovavo ed aveva cominciato a vuotarsi la vescica.

Quando ti trovi sulla turca, in sospensione, non hai difese. Puoi solo gridare ed è quello che feci una volta totalmente risvegliato dallo zampillo di quel liquido caldo che mi bagnava il viso.

L’altro, spaventato, si ritrasse e così ebbe termine quella inusuale doccia.

Ne abbiamo riso per mesi, a ripensarci!” e ne sorrideva ancora…

Avvenimento raro se non unico ed, in fondo, come aveva sempre pensato, beneaugurante.

Mauro della Porta Raffo