Automobili USA, 1900/1960

Varese, 2018, nel giorno dedicato a sant’Ardone di Aniano

 

 

Devo davvero molto a Raymond Cartier e non passa praticamente giorno che io non ricordi un fatto storico, una osservazione concernente la società yankee o un personaggio significativo dei quali egli abbia vergato, a proposito dei quali si sia intrattenuto, in quell’opera di divulgazione fondamentale che resta ‘Le Cinquanta Americhe’.

Altresì, che non rilegga qualche sua pagina.

Certo, il saggio in questione (preceduto nel 1953, prima dunque che Alaska e Hawaii fossero aggregate all’Unione, da ‘Le quarantotto Americhe’) è originalmente datato 1961 e l’immediata o quasi edizione italiana – che allora subito acquistai e che ancora compulso – risale all’aprile del successivo 1962.

Ovviamente e per conseguenza, nel mentre all’epoca fotografava al meglio possibile una realtà, è oggi un documento, una mirabile rappresentazione degli ‘States’ anni Cinquanta con ampie e pregnanti incursioni nei decenni che li hanno preceduti.

Uno dei metodi migliori per leggere ‘Le Cinquanta Americhe’ è quello di dedicarsi a uno specifico Stato, magari a una determinata città.

Così, tutto volendo per esempio conoscere in merito alle origini, alla affermazione e alla prima grave crisi dell’automobile USA – “la più tipica industria americana”, secondo Cartier – occorre colà leggere del Michigan e di Detroit.

‘Stretto’ il significato del nome francese della città, nome che deriva da quello assegnato al fiume sulle rive del quale fu fondata, ‘Rivière du détroit’, ovvero, per via della collocazione, ‘fiume dello stretto’.

Dal Chippewa ‘meicigama’, ‘grande acqua’, con riferimento al lago omonimo, quello dello Stato.

Ora, perché insediare ai primi del Novecento l’industria dell’auto in Michigan?

Perché a Detroit – meta subito di una a tratti convulsa migrazione interna in particolare dal Profondo Sud e soprattutto di neri in cerca di lavoro che colà trovarono – e non invece, magari, in una località del New England?

A quel che narra Cartier, dappoiché agli inizi dell’epopea occorreva intraprendere avventurosamente, rischiando, cosa che ai compassati uomini d’affari di Boston e di Providence, in quello specifico ambito, non andava (considerando costoro sostanzialmente l’automobilistica una industria – quale in effetti era – europea). 

Cosa che invece fecero nel Middle West giovanotti il cui nome è passato alla Storia con la esse maiuscola: Henry Ford, ovviamente, Davis Buick, Louis Chevrolet (svizzero di La Chaux-de- Fonds), Walter Chrysler, Ransom Eli Olds…

Numeri impressionanti quelli relativi alla produzione americana dell’auto fino agli anni Cinquanta.

Non v’era forse la necessità assoluta di collegare uno sterminio di insediamenti urbani grandi, medi, piccoli, di minima consistenza sparsi per ogni dove nell’Unione?

Del tutto ovviamente, fu la contemporanea costruzione di una vasta e ramificata rete stradale e autostradale a facilitare il boom.

(E quanto ci sarebbe da scrivere al riguardo, infinite essendo le difficoltà incontrate per le più varie ragioni nell’attendere all’opera nello sterminato Paese?!

E come sarebbe interessante trattare della nascita nella temperie dei ‘diners’ – antesignani degli ‘autogrill’ – dei ‘motel’, per collegamento dei ‘drive in’?!)

Nel 1952 – dati ufficiali alla mano – la produzione di autoveicoli USA rappresentava il settantatre per cento di quella mondiale e dei sessantacinque milioni di macchine che giravano nel mondo quarantacinque lo facevano negli Stati Uniti!

Sette soli anni dopo, nel 1959, la situazione era radicalmente mutata e l’Europa Occidentale – risorgente nel Dopoguerra – aveva preso nel campo della produzione il sopravvento abbastanza nettamente.

E non solo.

Abbiamo sotto gli occhi la recente, terribile crisi dell’auto.

Abbiamo visto, vediamo gli effetti di una deleteria mancanza di capacità previsionali.

Ci chiediamo come mai quanto occorso nella seconda metà dei Cinquanta nel campo nulla abbia insegnato.

Perché la prima gravissima crisi automobilistica è, come accennato, del quinquennio 1956/1960.

Non che abbia avuto le medesime caratteristiche dell’ultima, ma una buona memoria storica avrebbe dovuto rappresentare come sia proprio nei momenti di successo che il pericolo si annuncia e le difficoltà dipoi si appalesano.

Erano le auto americane allora e da sempre grandi, larghe, care e consumavano allegramente.

A fronte delle critiche che qualcuno avanzava, i costruttori replicavano che questo – quei modelli – era quanto i consumatori volevano.

L’attacco al monopolio di Detroit fu portato su due fronti.

Vi è capitato mai di vedere ‘Tin men’, film di Barry Levinson del 1987?

Sia pure collocando gli eventi nel 1963, narra anche dell’arrivo e della affermazione nel mercato della Volkswagen, in particolare del Maggiolino.

La Casa tedesca sbarcò in America nei primi Cinquanta ma già nel 1956 vendeva colà cinquanta mila vetture.

“Meno che niente”, si dissero i miopi (i ‘giganti’ erano morti o fuori gioco) dirigenti del settore.

Il secondo fronte fu aperto da George Wilken Romney (il padre di Mitt? certamente), fondatore della ‘American Motors’, che mise in produzione e in vendita macchine di proporzioni decisamente più ragionevoli.

Alla fine di quei benedetti anni, il panorama automobilistico era decisamente cambiato negli interi States.

Alle Volkswagen si erano unite le Renault, le Fiat, le Volvo, le Opel, le Peugeot…

E quante in circolazione le Rambler di Romney!

Certo, la capitale dell’auto infine reagì imitando i modelli che – si rese conto – gli acquirenti volevano.

Reagì, ma aveva perso all’incirca il trenta per cento del mercato!

Vorrei davvero che qualcuno, con la apparente leggerezza e la sottesa forte sostanza di Raymond Cartier, avesse disegnato, disegnasse le ‘Cinquanta Americhe’ dal 1960 in qua.

L’ho fatto io guardando alle istituzioni.

Peraltro non allargando lo sguardo compiutamente al sociale, alle città, alle persone.

Un compito – uno dei mille – per domani!

Mauro della Porta Raffo