7 giugno 1964, il Bologna vince lo scudetto

Estrapolo queste righe dalla introduzione, vergata dal carissimo Luca, al nostro libro a quattro mani ‘La prima squadra non si scorda mai’. Successivamente finalista al Premio Bancarella 2005. – MdPR

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Mi trasferii a Bologna perché mi avevano assunto al Resto del Carlino.

Prima cronista di nera, poi inviato speciale.

Mi spedirono in giro per il mondo.

Era cominciata però una rivoluzione epocale: il turismo organizzato.

I lettori non si accontentavano più di conoscere il mondo attraverso i reportage dei giornalisti, ma cominciavano ad assaporare il gusto di scoprirlo con i loro occhi e le loro orecchie.

Con l’erba tagliata sotto i piedi  il povero inviato speciale si riduceva così progressivamente a inviato normale.

Per sopravvivere professionalmente non aveva che una chance: battere le zone calde del mondo, dove c’erano guerre, rivoluzioni, colpi di stato, quelle situazioni insomma che non attiravano i tour organizzati.

Non risulta infatti che la Pier Busseti Viaggi abbia mai organizzato un Natale in Vietnam, centomila tutto compreso.

Bazzicando i luoghi dove si sparava, persi di vista per anni le vicende del nostro campionato, anche se feci scoperte curiose.

Per esempio durante la ‘Guerra dei sei giorni’ fra Israele Egitto, Siria e Giordania, intervistando i carristi israeliani, mi sentivo chiedere cosa avevano fatto Juventus o  Milan.

Anche a Tel Aviv furoreggiava infatti una specie di totocalcio.

Ripiombai in piena tregenda calcistica nel giugno del ’64.

Era domenica 7, il Bologna si giocava in uno spareggio lo scudetto a Roma contro l’Inter e il direttore Giovanni Spadolini, pur essendo un alieno degli stadi (credeva che le partite si svolgessero in tre  ‘atti’), aveva capito l’enorme valenza popolare dell’evento e aveva mobilitato tutte le sue firme.

“Tu”, mi aveva detto, “fai la città”.

Così, alle diciassette in punto, mentre cominciava la radio (non tele) cronaca, ingranai la marcia e cominciai a pattugliare lentamente il centro di Bologna.

La città era vuota, letteralmente senza un’anima.

Troppo facile il paragone con certi film di fantascienza dove l’obbiettivo carrella lento su strade intatte ma senza vita, su finestre aperte e deserte e, nel silenzio, si ode solo un ronzio che non si capisce bene cosa rappresenti ma è certamente di sicuro effetto.

Anche a Bologna, nel silenzio e nel vuoto delle strade udivo questo strano ronzio metallico: erano decine di migliaia di radio accese nei soggiorni, nei bar, nelle cantine dove faceva più fresco.

Non vedevo la gente ma la immaginavo, tutti riuniti, parenti, amici, condomini perché insieme era più facile affrontare quei novanta minuti di angoscia.

Parola impegnativa ma non ne trovavo altre: non era più soltanto un campionato che si concludeva, ma una vicenda terribile e assurda, perché in questo gioco della domenica si erano concentrati sentimenti, drammi, dolori, persino la morte (di un anziano sulle gradinate), che normalmente riguardano altri più essenziali aspetti della nostra esistenza.

Desideravo, al di là del tifo, che vincesse il Bologna perché era stato ingiustamente accusato di doping.

Poi la verità aveva trionfato e quindi era logico aspettarsi un finale da arrivano i nostri.

Per questo tutti stavano incollati alle radio, anche quelli che, quando il cronista urlava “Suarez entra in area”, avevano un tuffo al cuore e poi mormoravano fra sé: “di chi sarà questo Suarez, del Bologna o dell’Inter?”

Se nello psicodramma collettivo i rossoblù erano i ‘buoni’, i nerazzurri proprio cattivi non erano.

Ma poco simpatici pure.

Tanti ricordavano infatti che, quando l’Inter era andata a Vienna, aveva snobbato l’albergo che era stato di Onassis e di Soraya, perché non abbastanza all’altezza.

E, durante la conferenza stampa ai cronisti austriaci, i camerieri invece di servire tartine e martini, offrivano orologi e altri omaggi costosi.

E i dirigenti dichiaravano ai giornalisti: se vinciamo venite con noi a Rio De Janeiro, paghiamo tutto noi.

E i bolognesi commentavano: miliardari lo saranno, ma signori proprio no.

Passarono lentamente i primi quarantacinque minuti.

Mi fermai su un viale e mi sedetti su una panchina.

Nell’intervallo finestre e balconi si popolarono di uomini in canottiera  e donne in sottoveste.

Scuotevano la testa e scambiavano due parole, o stavano muti con i gomiti sul davanzale.

Dopo un quarto d’ora, tutti sparirono come a un colpo di fischietto.

La radio ricominciò a parlare di azioni, di linea laterale del campo, di gol mancati per un soffio.

Sulla voce del radiocronista, ognuno ricominciò a costruirsi il suo filmato personale, forse più emozionante di una telecronaca.

Ad un tratto accadde qualcosa di indescrivibile.

Un urlo disumano, che non si era mai udito perché siamo abituati ai boati degli stadi, non a quello di una città.

Non era il Bologna che aveva fatto gol, era una  vicenda che cominciava a chiudersi come doveva: la favola con dentro tutti gli ingredienti che dicevo, Davide e Golia, la calunnia e la verità, l’innocenza che trionfa.

Dopo qualche minuto, un altro mostruoso rimbombo  (per il fischio di chiusura) e quasi istantaneamente si rovesciò nelle strade una varia umanità, giovanissima e veneranda, sciccosa e plebea, bella e brutta.

Guardavo le mille facce e mi sorpresi a pensare che ognuna di esse con le sue corde vocali  aveva messo insieme quell’urlo surreale.

In pochi minuti nelle strade non ci si muoveva più e constatai con sgomento che bisognava risalire alla fine della guerra, cioè a ben altro evento, per trovare uno spettacolo simile.

Ma poi pensai che anche le cose più modeste diventano rispettabili se riescono a suscitare una gioia così grande e così vera.

Era giusto che ci fossero giorni anche per queste bandiere, queste lacrime, queste candide emozioni.

Scesi dall’auto e abbracciai un signore.

Luca Goldoni