La battaglia di Saipan: l’inizio della fine della Guerra del Pacifico

Saipan è una piccola isola situata nell’Oceano Pacifico Occidentale, un paradiso tropicale dalla spiaggia bianchissima e dalle acque più limpide che si possano immaginare, appartenente all’arcipelago delle Isole Marianne Settentrionali, oggi amministrata dagli Stati Uniti d’America.

Nella torrida estate del 1944, contrariamente alla vita solare e tranquilla che, oggigiorno, i suoi abitanti vi conducono, essa fu la sede di una delle più cruente e decisive battaglie della guerra combattuta fra gli USA e il Giappone per il controllo del mare più grande e strategico del mondo.

L’invasione americana dell’allora roccaforte giapponese di Saipan si rivelò, infatti, un’impresa estremamente cruenta, che, nell’estate del 1944, costò la vita a circa cinquantacinquemila persone – tra militari e civili – in appena tre settimane.

I Marines guidarono lo sbarco delle forze anfibie, imbattendosi in una violenta, fiera e ben organizzata resistenza da parte delle truppe giapponesi che avevano il controllo delle imponenti alture adiacenti alla spiaggia da dove ebbe inizio l’assalto.

Artiglieria, cecchini e armi automatiche delle Forze Imperiali fecero pagare un caro prezzo alle truppe a stelle e strisce, con un crescente numero di morti e feriti caduti sotto l’incessante fuoco di sbarramento.

Un battaglione americano, colto impreparato “nella terra di nessuno” – lo spazio che si estendeva fra il punto di sbarco dei Marines e l’inizio delle roccaforti e casematte giapponesi – subì ingenti perdite tentando disperatamente di trincerarsi e trovare un riparo, tanto che, successivamente, uno degli ufficiali superstiti raccontò allo storico americano John Toland: “E’ dura riuscire a scavare una fossa nel terreno fangoso, intriso d’acqua e di sangue, mentre sei sdraiato sul tuo stomaco, tentando comunque di farlo con il mento, con i gomiti, con le ginocchia e perfino con le dita dei piedi. Ma l’istinto di sopravvivenza e la voglia di vivere portano l’uomo a compiere ciò che, in condizioni normali, non sarebbe mai in grado di fare, e quel giorno scoprii che è possibile scavare una buca in quel modo apparentemente assurdo” (1).

Nonostante le inevitabili e preventivate difficoltà iniziali, lo sbarco anfibio a Saipan fece tesoro delle esperienze precedenti acquisite nelle battaglie per la conquista dell’atollo di Tarawa nel novembre del 1943 e degli atolli di Kwajalein e di Eniwetok nelle Isole Marshall agli inizi del 1944.

Dopo queste vittorie, il passo successivo, nella strategia del Comando delle Forze Alleate nel Pacifico, era la presa di Guam, Tinian e della stessa Saipan, nell’ambito della strategia c.d. di “island-hopping” (2) adottata dagli Stati Uniti.

Saipan, in particolare, era quasi equidistante dalle Isole Marshall (in precedenza conquistate, come detto supra, dagli Usa) e dal Giappone – a una distanza di quasi duemilacento km – ponendo, se conquistata, la maggior parte del Paese-arcipelago entro l’autonomia – e, conseguentemente, il “tiro” – dei bombardieri americani B-29.

A differenza di altri atolli pianeggianti, Saipan aveva una topografia più specifica e differenziata ed era un’isola relativamente larga (circa centoottantacinque km quadrati), fattori che ne rendevano la presa assai ardua.

L’isola era stata amministrata dal Giappone fin da quando quest’ultimo l’aveva strappata alla Germania, e a Tokyo era stato conferito un mandato di gestione dalla Società delle Nazioni nel 1920.

Quando il Giappone recedette dalla medesima Società delle Nazioni nel 1933 a causa delle critiche ricevute a seguito dell’invasione della Manciuria, a partire dal 1934 – in violazione dei termini del mandato ricevuto – fortificò Saipan, rendendola un obiettivo di vitale importanza.

L’invasione dell’isola venne classificata col nome in codice “Operation Forager”, e, data la preventivata difficoltà dell’impresa, costrinse la Marina americana a simulare sbarchi d’addestramento e a effettuare esercitazioni con esplosivi e lanciafiamme nei tre mesi che precedettero lo sbarco.

Le forze armate americane si trovarono di fronte circa trentamila soldati giapponesi, il doppio di quanto stimato prima dell’invasione. Il 14 giugno del 1944 – il giorno antecedente lo sbarco – alcune delle corazzate che erano state gravemente danneggiate durante l’attacco a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, iniziarono la fase di alleggerimento, martellando le roccaforti giapponesi con le loro armi pesanti e lanciando bombe dalle dimensioni simili a quelle di un Maggiolone Volkswagen.

I soldati americani dovettero fronteggiare una difesa strenua e un nemico implacabile, disposto a morire piuttosto che ad arrendersi, e, fin dall’inizio delle ostilità, entrambi gli schieramenti compresero che la battaglia si sarebbe rivelata un bagno di sangue.

Durante la seconda notte i giapponesi contrattaccarono con quarantaquattro carri armati, perdendone tuttavia ventiquattro a causa delle intense raffiche di proiettili anti-tank scagliate dai Marines.

Il 17 giugno, mentre il grosso della flotta giapponese attendeva – logorandosi da mesi nell’attesa – un confronto risolutore nei mari delle Marianne, le portaerei americane, su ordine dell’Ammiraglio Chester Nimitz, furono fatte salpare proprio per andare incontro alla flotta giapponese; nello stesso momento, le navi da trasporto e da rifornimento furono fatte allontanare temporaneamente dalle loro posizioni di supporto al largo di Saipan al fine di recarsi a dare manforte alle portaerei.

Il 19 giugno del 1944 la flotta americana decimò la task force delle portaerei giapponesi, affondandone tre e abbattendo trecentotrenta dei quattrocentotrenta aeroplani trasportativi, impedendo così ogni soccorso alle forze armate nipponiche impegnate a Saipan.

Inoltre, laddove le navi d’approvvigionamento statunitensi ritornarono quasi integre, i giapponesi erano ormai “tagliati fuori”, impossibilitati a portare munizioni e vettovagliamenti ai loro soldati, lasciati ormai soli a se stessi.

I destini della battaglia, e, conseguentemente, dell’isola, erano segnati.

Anche numerosi civili innocenti persero la vita nel corso delle ostilità.

I militari americani, infatti, non sempre riuscivano a distinguere tra militari combattenti e popolazione non combattente, nel fare irruzione nelle numerose caverne di cui era costellata l’isola o nell’udire fruscii e voci provenienti dalla jungla, anche perché le truppe giapponesi utilizzavano i civili come esca per attirare i soldati statunitensi in numerose imboscate.

Inoltre, analogamente a quanto sarebbe accaduto in seguito a Okinawa, le truppe Imperiali incoraggiavano e istigavano i suicidi di massa fra la popolazione civile, mettendola in guardia circa l’orribile destino cui sarebbe andato incontro chiunque fosse stato catturato dagli invasori (la propaganda ufficiale del governo descriveva i soldati americani come “diavoli”, “stupratori”, “saccheggiatori” e “barbari”).

Nonostante la strenua difesa, e data l’impossibilità di ricevere qualsiasi tipo di supporto a causa del blocco navale americano intorno a Saipan, la situazione, sul fronte giapponese, precipitò rapidamente e drammaticamente.

Il comandante delle truppe del Sol Levante, Generale Yoshitsugu Saito, gravemente ferito e ben consapevole che la battaglia era perduta, si suicidò il 6 luglio all’interno della caverna dalla quale aveva comandato le operazioni.

Il giorno seguente, tremila soldati, compreso qualunque ferito ancora in grado di zoppicare o di strascicarsi verso la morte, misero in atto un’ultima carica suicida di massa, venendo annientati, non prima, però, di avere inflitto ulteriori perdite alle forze armate americane.

Il 9 luglio del 1944, nonostante questi ultimi, isolati focolai di resistenza giapponese, le operazioni di rastrellamento vennero completate.

Dei circa settantunomila soldati statunitensi sbarcati a Saipan, quasi tremila rimasero uccisi e più di diecimila riportarono gravi ferite e mutilazioni.

Dell’intera guarnigione giapponese di stanza sull’isola, composta da trentamila uomini, vennero catturati soltanto novecentoventuno prigionieri; tutti gli altri morirono.

Il bilancio delle vittime avrebbe potuto essere molto peggiore. Come un’indagine militare americana successivamente stabilì, infatti, lo stato ancora incompleto delle difese giapponesi sull’isola rappresentò un elemento cruciale nella vittoria statunitense a Saipan.

Il successo delle attività di sabotaggio dei sommergibili della U.S. Navy ridussero drasticamente i rifornimenti di cemento e di altri materiali da costruzione destinati a rinforzare le elaborate difese di Saipan, così come ridussero il numero delle navi da trasporto truppe, le quali avrebbero dovuto scortare i rinforzi sull’isola.

Sempre la medesima indagine giunse alla conclusione che, se l’assalto americano fosse avvenuto tre mesi più tardi, Saipan sarebbe stata quasi inespugnabile, e il numero delle vittime esponenzialmente più elevato.

La susseguente Battaglia di Okinawa (1 aprile – 22 giugno 1945), quasi un anno dopo, diede la dimostrazione di quanto letali potessero rivelarsi delle difese perfezionate, tanto per gli invasori, quanto per i difensori e i civili.

Laggiù, in quella che è passata alla storia come la battaglia più sanguinosa della Guerra del Pacifico, ultimo baluardo delle truppe Imperiali a difesa della madrepatria giapponese, circa duecentomila civili persero la vita nel corso dei prolungati bombardamenti, insieme a settantasettemila soldati giapponesi e a quattordicimila soldati americani.

La disfatta nella battaglia di Saipan ebbe gravissime ripercussioni non soltanto a livello “estero”, con la posizione del Giappone nell’Oceano Pacifico e nel consesso delle grandi potenze mondiali ormai irrimediabilmente compromessa, ma anche – e, per certi aspetti, soprattutto – sul piano “interno”.

A pagare il prezzo più elevato furono, infatti, la popolazione civile in primis e l’allora Primo Ministro del Paese-arcipelago, Tojo Hideki, in seconda battuta.

Non appena lo Stato Maggiore della Marina giapponese – e, in parte, dell’Esercito – venne a sapere della sconfitta rimediata a Saipan, gli alti ufficiali furono intimamente consapevoli che tutto, ormai, era perduto.

Quando il Primo Ministro Tojo Hideki, poco tempo dopo, fu indotto – come si vedrà infra – a rassegnare le sue dimissioni, la maggior parte dei membri delle forze armate specularono, prudentemente e in via confidenziale, che, tutto sommato, la guerra sarebbe finita relativamente presto.

Invece sarebbe durata altri interminabili tredici mesi, nonostante i leader politici e militari del Paese sapessero che i “giochi” erano chiusi.

Una parte, seppur minoritaria, dei membri dell’Esercito giapponese accolse con prudente favore la “fine” di Tojo, che era stato Comandante del personale bellico dell’Armata del Kwantung (ovvero l’Armata Imperiale incaricata di occupare la Manciuria, nella Cina nord-orientale, e di instaurarvi lo Stato-fantoccio del Manchukuo) negli anni 1937-38.

Questi militari “dissidenti” tenevano Tojo in bassa considerazione perché egli era ritenuto un “Generale da scrivania”, che aveva fatto carriera adulando i suoi superiori, un fanatico della disciplina sempre impeccabile e tirato a lucido nell’aspetto ma non rispettato come soldato fra soldati.

Gli ufficiali delle forze armate del Sol Levante erano ben consapevoli che la caduta di Saipan poneva Tokyo – e, con essa, la maggior parte del Giappone – entro il tiro dei bombardieri americani ad alta quota B-29, in grado di eludere le difese anti-aeree nipponiche.

Fu, questa, la prima importante breccia nelle difese interne giapponesi, quella decisiva, che avrebbe lasciato vulnerabile l’arcipelago nei mesi a venire.

Nonostante le sempre più evidenti difficoltà, per tutta la durata della guerra, i media giapponesi, rigorosamente controllati dalla propaganda governativa, ingigantivano le vittorie e sminuivano o censuravano ogni sconfitta o contrattempo.

Per il Giappone, in realtà, la situazione si era fatta disperata già da prima della sconfitta a Saipan e, addirittura, anche prima di attaccare gli Stati Uniti nel 1941.

L’aumento delle ostilità nei confronti della – e provenienti dalla – Cina (Paese nel quale le truppe Imperiali avevano finito per “impantanarsi”), da un lato, nonché i disastrosi scontri ai confini mancesi con le truppe Sovietiche, dall’altro, stavano progressivamente prosciugando le scarse risorse naturali di cui il Giappone disponeva.

Inoltre, quando le sanzioni economiche americane iniziarono a produrre effetti, il tempo a disposizione dell’Impero per raggiungere una tregua onorevole si era ridotto al minimo.

Per questi motivi, Tojo si prese un rischio senza speranza a Pearl Harbor, godendosi il successo per i sei mesi successivi: l’andamento della guerra, da quel momento in avanti, svoltò a sfavore del Giappone, e l’indiscusso valore delle sue truppe venne travolto dalla schiacciante forza della produzione industriale americana.

La “macchina da guerra” giapponese stava ormai “girando a vuoto”, mentre i sempre più numerosi attacchi Alleati – tanto sottomarini, quanto aerei – indirizzati contro i suoi convogli di navi da rifornimento, la impossibilitavano dal mobilitare e distribuire le risorse in tutti i territori dell’Impero, che aveva raggiunto dimensioni esagerate e difficilmente difendibili (3).

Nonostante l’opprimente propaganda governativa, le crescenti perdite di vite umane non poterono essere tenute nascoste a lungo, e, a dimostrazione esemplificativa di questo fatto, agli inizi del 1944 – come racconta lo scrittore Murakami Haruki nel suo romanzo “Kafka sulla spiaggia(4) – circa ottocentomila bambini in età scolare furono evacuati dai principali centri urbani verso la campagna nella speranza di proteggerli dai sempre più frequenti raid aerei americani.

Le persone che vissero sulla propria pelle quell’evacuazione forzata ricordavano ancora, a decenni di distanza, le privazioni, la fame e il dolore per la separazione dalle loro famiglie.

Per molti di quei bambini si rivelò un’esperienza determinante per il resto della vita, che comportò carenze affettive, senso di rottura col mondo circostante e insicurezza.

Sebbene Saipan fosse caduta il 9 luglio del 1944, la nazione venne a sapere ufficialmente di questo importante “contrattempo” – come si affrettarono a definirlo la stampa e i media controllati dal governo – soltanto il 18 luglio, insieme alle allarmanti notizie circa le dimissioni del Generale Tojo.

Gli uomini di Stato più anziani (come si vedrà a breve infra) si sarebbero infatti sbarazzati senza troppi complimenti dell’uomo che – pur con la loro colpevole complicità – aveva condotto il Giappone in una guerra disastrosa.

Due giorni dopo, in uno di quei grandi, bizzarri disegni che solo la Storia sa “dipingere”, Adolf Hitler veniva quasi assassinato nell’Operazione Valchiria dai suoi stessi generali: quasi una premonizione simbolica di quale sarebbe stato l’esito finale della Seconda Guerra Mondiale.

Il bombardamento di sessantasei città giapponesi, che seguì alla perdita di Saipan, si lasciò dietro circa cinque milioni di senzatetto da un capo all’altro del Paese, uccidendo probabilmente cinquecentomila civili e ferendone altri quattrocentomila.

Tutto questo avrebbe potuto essere evitato, così come le mortali invasioni di Iwo Jima e Okinawa, per non parlare dei bombardamenti nucleari su Hiroshima e Nagasaki, se soltanto i leader politici giapponesi si fossero coraggiosamente attivati per interrompere la spirale di violenza e porre fine a un conflitto che loro sapevano essere irrimediabilmente perduto.

Invece furono necessari altri due primi ministri e più di un anno di ulteriori, spaventose atrocità, prima che l’Imperatore Hirohito – il quale è ironicamente passato alla storia come l’Imperatore Showa, ovvero dell’Era della “pace illuminata” – intervenisse, finalmente, a porre fine a una guerra assurda combattuta in suo nome (5).

La facilità con la quale Tojo fu allontanato dalle stanze del potere suggerisce che il Giappone dell’epoca non fosse uno stato “fascista” e autoritario, come lo era la Germania Nazista, quanto piuttosto una ben oleata oligarchia, all’interno della quale le connivenze fra Esercito, Marina, Parlamento e i quattro grandi “zaibatsu” (conglomerati industrial-finanziari composti dalle quattro grandi famiglie Sumitomo, Mitsui, Mitsubishi e Yasuda) la facevano da padrone.

Ciononostante, durante tutta la durata della guerra, Tojo venne vilipeso e insultato dalla stampa americana come il Fuhrer giapponese, il diabolico despota che aveva scatenato la sua furia sanguinaria e omicida nell’Oceano Pacifico.

In patria, finché rimase Primo Ministro, fu onnipresente sui media, e gli stessi giapponesi, per quanto preoccupati per l’esito del conflitto, lo rispettavano come il loro comandante supremo, che portava avanti la volontà di Hirohito, il loro leader divino.

Date le circostanze, è sorprendente che egli abbia conservato il suo ruolo così a lungo.

“Dietro le quinte” del potere, però, montava un crescente malcontento nei suoi confronti, a causa dell’accumularsi delle sconfitte nel Pacifico e dell’inarrestabile incremento dei raid aerei americani sul suolo patrio.

A seguito della debacle di Saipan, il 13 luglio del 1944 Tojo si consultò con Kido Koichi – Lord del Sigillo Privato nonché il più stretto consigliere di Hirohito – su quale strategia politica adottare.

Tuttavia, non appena iniziò a riorganizzare il suo Gabinetto di Governo, gli astuti politici di lungo corso si riunirono il 17 luglio e, sostanzialmente, chiesero le dimissioni dello stesso Tojo Hideki.

Così facendo, coloro che, in precedenza, lo avevano aiutato a prendere il potere – approvando e rendendosi complici di tutte le sue scellerate decisioni – , votarono una mozione di sfiducia nei suoi confronti e il 18 luglio del 1944, due anni e nove mesi dopo che era stato nominato Primo Ministro, lo “Shogun del Ventesimo Secolo” fu politicamente eliminato.

Una volta lontano dal potere, Tojo Hideki fece perdere le sue tracce, sparendo improvvisamente da un giorno all’altro.

I suoi critici – dei quali, ovviamente, facevano parte anche ex “amici” e compagni di tante battaglie politiche – indirizzarono l’attenzione dell’opinione pubblica sul fatto che i suoi due figli maschi erano stati esentati dal servizio di leva e che, quando era a capo della polizia militare in Manciuria, egli ricattò i suoi rivali e ne ostacolò in tutti i modi la carriera a proprio vantaggio.

Fu inoltre accusato di avere utilizzato fondi dell’Esercito ad uso personale e di avere aumentato la propria influenza ai “piani alti” della politica ricorrendo alla corruzione.

Nonostante fosse politicamente caduto in disgrazia, l’Imperatore Hirohito, nel febbraio del 1945, chiese un suo parere dal momento che lo sforzo bellico del Giappone era sempre più inefficace e che i bombardieri americani mettevano a ferro e fuoco le città dell’arcipelago.

Nonostante la situazione fosse disperata, Tojo rimase baldanzosamente ottimistico nelle sue previsioni, e appoggiò l’idea di continuare la guerra.

Egli lamentava, tuttavia, che, se il popolo avesse continuato ad abbattersi a causa dei raid aerei statunitensi, la “missione divina” del Giappone di liberare l’Asia dal giogo Occidentale sarebbe stata in pericolo.

Un forte stato d’animo e coesione nazionale, sosteneva, erano essenziali per sopraffare il nemico.

La sua ingannevole, folle valutazione contrastava con quella dell’ex Primo Ministro, Principe Konoe Fumimaro, che aveva detto a chiare lettere a Hirohito che la guerra era persa e che quanto più a lungo questa sarebbe durata, maggiore sarebbe stato il rischio di una rivoluzione comunista che avrebbe seriamente minacciato la sopravvivenza della Casa Imperiale.

Fino alla fine, dunque, Tojo Hideki parve immemore del fatto che le sue scelte avevano spinto il Giappone sull’orlo della distruzione.

Dopo lo sgancio di “Little Boy” e di “Fat Man” su Hiroshima e Nagasaki, rispettivamente il 6 e il 9 agosto del 1945, e la conseguente, inevitabile resa incondizionata del Giappone, l’11 settembre, mentre la polizia militare si preparava ad arrestarlo, l’ex terrore dell’Asia, Generale Tojo Hideki, si puntò al torace una pistola Colt calibro 32 e fece fuoco, mancando tuttavia il cuore e sopravvivendo per affrontare il processo davanti al Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente (il Processo di Norimberga dell’Asia, come quest’ultimo ben poco giuridico e molto politico, tanto nelle valutazioni quanto nelle sentenze).

In quella sede si assunse volontariamente ogni responsabilità, senza respingere le accuse rivoltegli, per proteggere l’Imperatore, al quale era rimasto sempre fedele.

Il suo intento andò a buon fine: Hirohito non fu ritenuto responsabile di alcun crimine e, anzi, con il benestare degli americani, giocò un ruolo molto importante nel Giappone del dopoguerra e della ricostruzione.

Diverso fu il destino del Generale: venne condannato a morte e impiccato il 23 dicembre del 1948 nel carcere di Sugamo – un distretto di Tokyo – insieme ad altri sei criminali di guerra di Classe-A, pagando con la vita numerose colpe e atrocità che, per quanto effettivamente compiute, per anni aveva condiviso con tanti altri personaggi che, invece, ebbero un fato – e amicizie – più favorevoli.

Sic transeat gloria mundi.

 

Edoardo Quiriconi

 

(1) J. Toland, “L’eclisse del Sol Levante”, Mondadori, Milano, 1970.

(2) Strategia militare utilizzata dagli Alleati contro il Giappone e le forze dell’Asse durante la Seconda Guerra Mondiale e, nello specifico, nell’Oceano Pacifico. L’idea alla base di tale strategia era quella di evitare le isole occupate dai giapponesi più pesantemente fortificate e concentrare, piuttosto, le risorse Alleate sugli atolli strategicamente più importanti in grado, se conquistati, di facilitare l’avanzata verso l’arcipelago del Sol Levante.

(3) All’apice della sua espansione, l’Impero Giapponese comprendeva: il territorio nazionale; la Penisola Coreana; la Manciuria (Cina nord-orientale); parte della Cina centro-meridionale e tutto il Sud-Est Asiatico.

(4) H. Murakami: “Kafka sulla spiaggia”, Einaudi, Torino, 2004.

(5) Per un’impeccabile analisi circa il ruolo di Hirohito nei drammatici eventi degli Anni ’40 del secolo scorso, si veda il lavoro di H.P. Bix: “Hirohito and the Making of Modern Japan”, Harper & Collins, NYC, 2000. Il testo è stato insignito del Premio Pulitzer per la saggistica nel 2001.