Jacobo Arbenz Guzman

27/28 giugno 1954: sessanta anni fa, il presidente democraticamente eletto Jacobo Arbenz Guzman, il ‘maestro’ di Ernesto ‘Che’ Guevara lasciava il Guatemala costretto all’esilio da una invasione organizzata dalla CIA

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Jacobo Arbenz Guzman, successore di Juan José Arévalo, secondo dopo una lunga teoria di caudillos e dittatori,  fu democraticamente eletto presidente del Guatemala il 15 dicembre 1951.

Passarono solo sei mesi e il suo governo, mantenendo le promesse fatte dal nuovo capo dello Stato ai campesinos e agli indios nel corso della campagna politica, promulgò la tanto attesa e rivoluzionaria riforma agraria: erano oggetto d’esproprio i fondi incolti e destinati a pascolo di estensione superiore ai novanta ettari e quelli non direttamente coltivati, erano esentate le aziende a coltivazione intensiva, i terreni demaniali potevano essere concessi in usufrutto perpetuo a singoli individui o a cooperative.

In poco più di un anno, circa cinquecentomila ettari sottratti ai latifondisti furono così ridistribuiti ai contadini.

Tra i possedimenti oggetto di esproprio, ottantatremilaventinove (83.029) ettari per l’appunto incolti appartenenti alla potentissima multinazionale americana United Fruit Company.

Accusato per mezzo di una ben orchestrata manovra propagandistica di essere un comunista, Arbenz, che, nel frattempo, per fronteggiare l’opposizione USA, aveva cercato di avvicinarsi all’URSS, dovette affrontare nei primi mesi del 1954 da principio l’ostilità dei governi circonvicini e, in seguito, una vera invasione, organizzata dalla Cia (Allen Dulles, allora capo appunto dell’Agency e fratello del segretario di stato dell’amministrazione Eisenhower John Foster Dulles, era all’epoca l’avvocato della citata United Fruit Company!), di fuoriusciti guatemaltechi agli ordini del colonnello Carlos Castillo Armas.

Gli eventi, esattamente sessant’anni fa, precipitarono rapidamente e il presidente fu costretto, per evitare una sanguinosa guerra civile, a dare le dimissioni.

Si era tra il 27 e il 28 giugno 1954.

Di tutto questo, forse, non metterebbe conto parlare non fosse per il fatto che Ernesto ‘Che’ Guevara è proprio alla sua esperienza nel Guatemala di Arbenz che ha più volte fatto riferimento indicandola come momento decisivo di formazione politica.

Il ‘Che’, infatti, nel vivo di quella vicenda e in conseguenza del suo andamento ricavò alcuni punti fermi del successivo proprio operare.

Guevara era arrivato in Guatemala nel dicembre del 1953 nel corso del secondo viaggio intrapreso in esplorazione del continente latino americano.

Jacobo Arbenz Guzman

L’intendimento era di mettersi al servizio del governo Arbenz  in qualità di medico.

Il pensiero del Che a proposito della pacifica ‘rivoluzione’ messa in atto dal presidente guatemalteco e l’effetto che su di lui ebbe la rapida fine del governo riformatore sono benissimo evidenziate dal contenuto delle lettere che inviò all’epoca ai familiari in Argentina.

Nella prima, dipinge Arbenz Guzman come “un uomo duro, senza dubbio disposto a morire al suo posto se necessario” e, conseguentemente, si offre per il servizio di pronto soccorso medico per le costituite brigate giovanili che, ritiene, dovrebbero addestrare militarmente i sostenitori del legittimo governo.

Arbenz, però, confidando nell’aiuto dell’esercito, si rifiuta di difendersi dagli invasori distribuendo armi al popolo a cui continua a chiedere di mantenere la calma per evitare un bagno di sangue.

Guevara ne comprende gli intenti e ne giustifica l’azione.

Caduto il presidente e verificata l’impossibilità di una rivoluzione disarmata, in una missiva indirizzata alla madre e datata 4 luglio, il ‘Che’ scrive:

“Tutto è accaduto come in un bel sogno che si cerca di far continuare anche da svegli.

La realtà sta bussando a molte porte e cominciano già a suonare le scariche che premiano la più accesa adesione all’antico regime.

Il tradimento continua ad essere patrimonio dell’esercito e una volta di più resta provato l’aforisma che indica nella liquidazione dell’esercito il vero principio della democrazia (e se l’aforisma non esiste, lo creo io)”.

La lettera prosegue descrivendo la sproporzione di forze esistente tra gli invasori e i cittadini fedeli ad Arbenz cui addebita di non avere compreso che il momento richiedeva la distribuzione di idonei mezzi di difesa a tutti perché “un popolo in armi è un’arma invincibile”.

“La cruda verità – conclude – è che il presidente non ha saputo essere all’altezza delle circostanze”.

Di lì a poco, si rifugia in Messico.

L’esperienza e la delusione guatemalteca l’hanno segnato.

E’ pronto alla lotta contro l’imperialismo e all’adesione ai principi marxisti.

Nel successivo novembre 1955, a casa di Maria Antonia Gonzales, incontrerà un giovane avvocato cubano in esilio che sta operando per organizzare una rivoluzione nell’isola: è Fidel Castro.

Anni dopo, il 30 luglio 1960, il ‘Che’, inaugurando a Cuba il primo Congresso Latino americano della Gioventù, rivolgendosi ad Arbenz Guzman, invitato per l’occasione, dirà:

“Vogliamo salutare in modo particolare Jacobo Arbenz, presidente della prima nazione latino americana che alzò la voce senza paura contro il colonialismo e che attraverso una riforma agraria profonda e coraggiosa espresse l’aspirazione delle sue masse contadine.

E vogliamo ringraziare lui e quella democrazia che dovette soccombere per l’esempio datoci e per averci permesso una esatta valutazione delle deficienze che quel governo non poté superare, il che ha poi consentito a noi di andare alla radice della questione e di defenestrare con un taglio netto i detentori del potere e i loro sbirri”.